LA NASCITA DELLA SOGGETTIVITA’ LAVORATIVA
SOGGETTIVITA’ LAVORATIVA
In generale il concetto di soggettività indica semplicemente
il modo personale che ognuno ha di vedere le cose, quindi trasferendo questo
significato nel contesto lavorativo, la soggettività è il riconoscimento
dell’importanza del fattore umano nel lavoro.
In particolare per Spaltro la soggettività in sé è l’insieme
delle azioni e dei pensieri caratteristici di un dato individuo, che in ambito
lavorativo sta a significare “l’insieme dei pallini dei singoli lavoratavi
indipendentemente dai loro ruoli e livelli gerarchici”.
La storia della soggettività lavorativa risale alla fine
dell’800 ed è caratterizzata dal suo rapporto conflittuale con l’oggettività.
Infatti il mondo del lavoro è dominato da valori quali: la
produttività, il rendimento, l’organizzazione, che si riferiscono al concetto
di razionalità e quindi oggettività.
E’ necessario, quindi, definire una soggettività che non
faccia sempre ed esclusivamente riferimento all’individualità. Occorre definire
tre livelli di soggettività:
soggettività di coppia, riferita all’altro diverso da me;
soggettività di gruppo (o sociale), riferita al piccolo
gruppo;
soggettività collettiva, riferita a sistemi sociali definiti
nello spazio e nel tempo.
La conoscenza nostra e degli altri,provoca in noi paure e
resistenze poiché può portare a un cambiamento in noi e negli altri, questa
situazione di paura impedisce l’intervento,determinando la considerazione degli
altri come oggetti,cioè cose inanimate.In questa prospettiva la soggettività
diventa oggetto di diagnosi e di intervento.Per Spaltro questo ci permette di
determinare cambiamenti ed in saturare rapporti con uomini - soggetti e non su
uomini - oggetti. La storia della psicologia del lavoro coincide con la storia
della soggettività lavorativa.La psicologia del lavoro si afferma come scienza
quando accanto ad un uomo considerato solamente in quanto homo oeconomicus
compare un uomo che è anche homo psicologicus.In particolare tale psicologia ha
origine in un preciso momento storico, cioè verso la fine del 1800, quando il
capitalismo si andava trasformando fino all’affermazione della seconda
rivoluzione industriale, fu proprio in questo periodo che nacque un interesse
attorno alla soggettività
lavorativa,poiché se da un lato si potevano captare i segnali rivelatori
di una nuova mentalità e soprattutto di un nuovo interesse,quello per l homo
psicologicus, dall’altro ancora non emergeva nessuna preoccupazione per le
conseguenze che il macchinismo industriale avrebbe potuto avere sull’uomo.
DAL CAPITALISMO LIBERALE AL CAPITALISMO MONOPOLISTICO
Alla fine del secolo XIX si assiste alla trasformazione del
capitalismo: si passa dal capitalismo liberale basato sulla convergenza
dell’interesse comune con l’interesse individuale, al capitalismo
monopolistico, cioè delle grandi imprese.
In definitiva dalla prima rivoluzione industriale si passa a
nuove forme di divisione del lavoro spezzettato dalla produzione in gran serie.
LA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
La prima rivoluzione industriale ebbe inizio nel tardo 18°
secolo in Inghilterra e poi si espanse in tutta l’Europa. Tale rivoluzione si
sviluppa sulla serie dell’invenzione della macchina a vapore che ha
caratterizzato il passaggio dalla manifattura alla fabbrica.
Dunque, l’impiego della macchina a vapore in gran parte
delle industrie, era ancora agli inizi, come del resto le specializzazioni
operaie. Quindi il sistema delle fabbriche era ancora in fase rudimentale
tranne nella filatura del cotone e in alcune branche della metallurgia, che
erano i fattori trainanti.
In questa fase il lavoro era ancora di tipo artigianale o
semi – artigianale, il metodo era personale, e gli utensili semplici e
tradizionali.
LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Questa fase è definita da due condizioni:
l’immigrazione di massa , che andava a formare un enorme
mercato di lavoratori non qualificati;
lo sviluppo della formazione di massa che permette di
realizzare il mercato con prodotti razionalmente concepiti, cioè standardizzati
e a basso prezzo, utilizzando proprio la manodopera non qualificata e a buon
mercato.
Un elemento che caratterizza la seconda rivoluzione
industriale e che la differenzia dalla prima è uno sviluppo intenso e vario
delle tecniche, cioè nasce non solo la necessità di migliorare e di inventare
delle macchine in grado di sostituire i processi manuali, ma anche la necessità
di creare motori in grado di azionarle.
In questa prospettiva si presentano da qui in vanti problemi
scientifici, ovvero si afferma una cultura scientifica in grado di sostituire
nelle invenzioni delle macchine, con veri e propri ingegneri.
Si hanno cambiamenti anche riguardo alle risorse umane e il
loro rapporto con il capitalismo.
Infatti, come sostiene Friedman: nel corso della prima
rivoluzione l’atteggiamento del padronato nei confronti della manodopera era
stato caratterizzato da una forte indifferenza attraverso cui si attingeva alla
manodopera maschile, femminile e infantile senza preoccuparsi del suo
deperimento.
Verso la fine del secolo, invece, sorge la preoccupazione di
economizzare le risorse umane che si scoprono limitate. Afferma Cole che ci si
rende conto che la manodopera non è inesauribile ed è cara , tanto che gli
operai si organizzano sia per difendere il loro valore sul mercato del lavoro,
sia per ottenere le garanzie elementari dell’igiene. Si delinea così una
legislazione sociale.
2. LO SCIENTIFIC MANAGEMENT
I primi accenni al problema del lavoro scomposto e
parcellettato si trovano già in Adam Smith, il quale accusava i suoi
contemporanei di fare abuso di questa forma di divisione del lavoro che in
realtà nascondeva il pericolo di un “incretinimento” dei soggetti che si trovano
in condizione di dover ripetere giorno dopo giorno gli stessi gesti e le stesse
operazioni.
Sulla stessa linea critica si è schierato Sismondi,
sottolineando la “perdita della serenità” accusata dall’uomo moderno con il progredire della divisione del lavoro.
La routine aggrediva l’operaio schiavizzandolo e riducendo
la sua volontà.
Anche Marx ed Engels vedevano il futuro operaio una vittima
del meccanismo spietato che avrebbe annientato la propria dignità e
indipendenza di uomo.
Con il passar degli anni molti psicotecnici tentarono di
dare risposta alle questioni sollevate rispetto al problema frazionamento –
ripetitività del lavoro.
Nel 1929, ad esempio, Hans Rupp proponeva di rendere
visibile all’operaio, il lavoro finito, in modo da fornirgli la misura di ciò
che il suo compito rappresentava dal punto di vista produttivo. Era necessario
che l’operaio avesse uno stile per proseguire nel suo compito o che perlomeno
ne avesse l’impressione. Questi accorgimenti però non contribuirono a risolvere
il problema.
Interessanti osservazioni per valutare queste difficoltà nel
contesto lavorativo , furono realizzate da Wyatt, Fraser e Stock, che
osservarono in una fabbrica di confetti, 12 ragazze addette ad operazioni non
meccanizzate, quali: la confezione, l’imballaggio, la pesatura della merce, con
particolare riferimento al rendimento e al ritmo delle operazioni.
Si svolgeranno due compiti ugualmente monotoni: uno
l’imballaggio e la confezione; l’altro consisteva nello scartare a mano
confetti già imballati dalla macchina in modo sbagliato, rifacendo quindi il
lavoro.
Tale studio dimostrò che nel corso del primo tipo di
operazione il lavoro procedeva speditamente e si registravano rendimenti alti,
nel secondo caso, invece, il ritmo era assai più lento e le operaie manifestavano
sofferenza. Si notò che le operaie non erano tanto afflitte per la ripetitività
del lavoro, quanto per il ruolo che investivano all’interno del circuito
produttivo, cioè anche se erano disposte a ripetere all’infinito le stesse
operazioni, non accettavano di vedersi alla stregua delle macchine i cui errori
dovevano recuperare.
Wunderlich (1919) tentò di indicare le caratteristiche della
personalità di un soggetto che potrebbe essere idoneo al lavoro ripetitivo. In
particolare tre diversi tipologie:
soggetti la cui necessità era quelle di restare
completamente assorbiti dal proprio lavoro: in caso contrario manifestavano
sofferenza e noia;
soggetti che avevano dichiaratamente scelto un lavoro di
routine perché pensavano che la sua ripetitività potesse concedere loro momenti
di distrazione; però si resero conto successivamente di non sopportate questo
tipo di lavoro e se ne sentivano prigionieri;
soggetti che scelsero il compito di routine senza pentirsi
di tale scelta perché un lavoro automatizzato concedeva loro lo spazio di cui
avevano bisogno, quindi si potevano definire idonei alla routine, supportata
con facilità.
Inoltre Wunderlich poté concludere osservando che : il non
coinvolgimento è un elemento importante per i lavoratori della catena solo se
essi non nutrivano ambizioni, non sentivano il bisogno di progredire, quindi, i
poco intelligenti. Secondo Friedman, invece, uno degli effetti della routine è
la rassegnazione degli operai ai simili compiti.
L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO DI TAYLOR
Nel periodo storico compreso tra l’ultimo decennio dell’800
e i primi decenni del 900 si manifestavano nel settore industriale, nuove
tendenze quali, il bisogno di associazione e di organizzazione. Si realizza
così il capitalismo monopolistico dominato da Pool, Trust e Corner.
Nel 1880 l’American Society of Mechanical Engineers (ASME)
sorgeva per cercare di dare risposte alle nuove esigenze del lavoro.
Tra i collaboratori vi era Taylor che poneva a fondamento
delle sue teorie l’esperienza diretta di semplice operaio per divenire poi un
brillante ingegnere. Egli individuò 2 fattori dominanti nel contesto
organizzativo:
difformità nello sviluppo dell’organizzazione: cioè le
aziende si erano sviluppate grazie a uomini che, partiti dalle posizioni più
umili, avevano raggiunto posizioni direttive all’interno delle aziende;
mancanza di un rapporto tra organizzazioni e utili aziendali
(guadagni): cioè non sempre una buona organizzazione produceva guadagno per le
aziende.
Secondo Taylor queste condizioni si creavano perché vi erano
esigenze diverse tra lavoratori e datori di lavoro: i lavoratori chiedevano
salari più alti; mentre i datori un basso costo della manodopera.
Quindi per soddisfare entrambe le esigenze era necessario,
secondo Taylor, una rivoluzione dell’operaio stesso, cioè inserendolo in una
condizione dove poter svolgere una grande quantità di lavoro e accedere ad un
grado di primordine ricevendo così un salario più alto e favorendo la
produttività dell’azienda.
A tal proposito Taylor diede grande rilievo al metodo
concepito da Towne e Halsey, che consisteva nella registrazione della quantità di lavoro in un
determinato tempo limite. Al lavoratore che riusciva a svolgere il lavoro in
tempi più brevi veniva pagato un salario ordinario con in più un premio
calcolato in base alla differenza tra il salario guadagnato e quello ordinario.
Questo metodo portò molti stabilimenti a raggiungere salari
più alti e minor costo della manodopera, realizzando anche quello che aveva
auspicato Taylor, cioè la relazioni all’interno delle aziende tra lavoratori e
datori di lavoro.
Significativi sono gli studi compiuti alla Bethlehm Steel
Corporation (BSC) sul trasporto dei materiali grezzi, trasportati da squadre. I
manovali erano pagati secondo categoria, tuttavia, potevano essere premiati
secondo categoria superiore con salario più elevato. La tecnica utilizzata era
quella di scomporre e frazionare il lavoro e questo contribuì alla riuscita
dell’esperimento.
Infatti, secondo Taylor due fattori hanno contribuito al
successo:
i lavoratori ricevevano ogni mattino un talloncino dove
indicare la quantità di lavoro svolto il giorno precedente e l’importo guadagnato: in tal modo il
lavoratore poteva costatare direttamente il risultato della propria prestazione
lavorativa;
ciascun operaio misura la propria produzione.
Da qui si osservò che il cottimo individuale era preferibile
al cottimo a squadra.
Taylor riteneva quindi che fosse necessaria una
parcellizzazione del lavoro che permettesse di definire uomini capaci al posto
adatto per la produttività dell’azienda. Egli mettendo a confronto i metodi di
organizzazione antiquati con quelli moderni, poté definire una nuova
“organizzazione scientifica del lavoro”
basata su determinati principi, quali:
compito giornaliero, ossia a ogni operaio veniva ogni giorno
affidato un lavoro definito;
condizioni standardizzate, che venivano imposte agli operai
per metterli in grado di portare a termine il loro compito;
alta paga (in caso di riuscita del compito);
perdita (in caso di insuccesso).
l’ unico interesse di
Taylor in quel periodo era di attuare delle strategie di programmazione che
garantivano dei vantaggi all’impresa.
Il benessere del lavoratore,nella sua eccezione più ampia
,era posto come obiettivo soltando dopo le grandi questioni economiche,infatti,
il concretizzarsi di una società nella quale i bisogni dei padroni si sarebbero
congiunti con quelli degli operai e nella quale gli sforzi di entrambi si
sarebbero congiunti era sicuramente un fatto auspicabile.
Taylor rimase sempre lontano dalla prospettiva di un reale
approfondimento psicologico dei problemi dell uomo applicato al lavoro. È
lecito per questo chiedersi se Taylor dette davvero impulso al miglioramento
delle condizioni lavorative nell’industria o fu soltanto l’inventore di un
nuovo strumento di sfruttamento.
Si potrebbe considerarlo come un innovatore in buona fede,in
quanto egli tentò davvero di creare i presupposti per una rivalutazione della
condizione umana negli ambienti industriali. Certamente non gli mancò
l’entusiasmo nella fase di realizzazione dei propri progetti. I presupposti del
taylorismo inizialmente erano infatti quelli di rendere l’uomo consapevole
delle proprie capacità,di collocarlo successivamente in una posizione che lo
rendesse in grado di sfruttare al massimo,incentivando la sua disponibilità
mediante emolumenti di varia entità e portata.
ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO O SCIENTIFIC MANAGMENT
La nascita dell’organizzazione del lavoro si basa su 3
motivi:
TECNICO: l’industria, ampliando le sue dimensioni, richiede
per una sua più funzionale organizzazione, un parziale decentramento dei
compiti direttivi, di coordinamento delle fasi del processo produttivo e di
controllo sulle nuove tecnologie di fabbrica. L’ingegnere e il tecnico assumono
una rilevanza mai riscontrata prima. Quindi da una parte l’imprenditore cede
una porzione del suo potere a gruppi tecnici; dall’altra gli operai, attraverso
regole scientifiche, vedono la perdita totale della possibilità di decidere sui
modi di procedere del proprio lavoro. Infatti, secondo i principi
dell’organizzazione scientifica, per ogni compito lavorativo devono essere
formulate prescrizioni che “significano non solo quello che si dovrà fare ma
anche come dovrà essere fatto, stabilendo esattamente il tempo assegnato per
l’esecuzione”.
ECONOMICO: negli ultimi decenni dell’800, la necessità di
rispondere in maniera più aggressiva alla concorrenza nazionale ed
internazionale, imponeva una riduzione dei costi, attraverso un deciso
incremento della produttività. A tal fine si attuarono concentrazioni di
imprese e si iniziò a introdurre una nuova scienza organizzativa che troverà,
negli anni 90, una più vasta applicazione.
IDEOLOGICO: l’aspetto ideologico del nuovo sistema è
espresso molto bene sia da Ford che da Taylor:
Ford affermava che le chiavi del lavoro sono: dividere e
suddividere il lavoro, tenerlo in movimento e per applicare ciò è necessaria la
riduzione di pensiero da parte degli operai a eliminazione di ogni loro
movimento superfluo.
Taylor affermava che il sistema organizzativo si basa su una
rigida frattura fra manualità e intellettualità, dove il lavoro umano è imposto
e regolato dai tecnici; è di tipo uniforme e ripetitivo a servizio della
macchina o strumento di lavoro (gli operai sono pagati per lavorare e non per
pensare: c’è qualcun altro che è pagato per questo). Questa divisione viene
accettata soprattutto attraverso gratificazioni e stimoli economici nei
confronti degli operai. Infatti per Taylor, uno stabilimento, che intende
perseguire un’organizzazione razionale, deve prevedere 4 sistemi (o forme di
retribuzione e gratificazione):
lavoro a giornata
lavoro a cottimo
cottimo con premio
cottimo a tariffa differenziata
In realtà attraverso questi 4 sistemi si cerca di
controllare la forza-lavoro e grazie all’introduzione di metodi scientifici di
lavoro e di calcolo della remunerazione si arriva perfino all’ingenua illusione
dell’abolizione del conflitto di classe.
Infatti, secondo Taylor, il primo obiettivo è quello di far
comprendere agli operai che il nuovo sistema trasforma i datori di lavoro in
“amici” che lavorano al loro fianco con il massimo impegno possibile, per gli
stessi scopi: “realizzare cioè un aumento di produzione che riduce i costi, in
misura totale da poter pagare gli operai dal 30% al 100% in più di quanto
guadagnavano in passato pur assicurando all’azienda dei buoni profitti”.
Le incentivazioni nei confronti dei lavoratori erano
esclusivamente economiche e questo minacciava ancora di più le condizioni
lavorative. Infatti, gli operai attratti da una remunerazione più elevata
continuavano ad assoggettarsi ad un tecnicismo spietato che portò al termine
uomo-bue per rappresentare il super-operaio taylorista che come un animale
(bue) non doveva pensare con la sola prospettiva di aumentare il proprio
benessere.
IL SUPERAMENTO DELLO SCIENTIFIC MANAGMENT
Le teorie dello Scientific Managment di Taylor portarono
alla nascita di una nuova figura professionale il manager, le cui funzioni
rispondevano alle esigenze organizzative, amministrative e tecniche.
Però l’applicazione delle nuove metodologie della psicologia
del lavoro ha avuto un effetto estraniante sull’uomo: non è stato considerato
il concetto di “qualità” che spinge l’uomo alla motivazione, non era stato
attribuito giusto rilievo alla sua creatività in termini di produttività.
Le conseguenze psicologiche dello scientific managment
rappresentano il più grande limite del taylor-fordismo, cioè l’estraniazione
del lavoro e dal lavoro. Il lavoro viene visto come un “male” e il lavoratore
si adatta attraverso il disinteresse al lavoro stesso.
le teorie dello scientific management fu fortemente
criticato a partire dalla contestazione
delle società ferroviarie nel 1911, successivamente Taylor
ebbe importanti controversie con i sindacati statunitensi che portarono i
rapporti ad essere sempre più tesi fino allo sciopero dell’ arsenale di
Watertown. Il primo conflitto mondiale permise l applicazione dello scientific
management, ma nonostante ciò i limiti di tale sistema cominciarono ad
evidenziarsi sempre di più fino alla sostituzione col New Deal roosveltiano
dopo la crisi del 1929
3. A SCOPERTA DELLA NATURA SOCIALE DEL LAVORO
In opposizione alle teorie e ai metodi dell’organizzazione
scientifica furono avanzate ipotesi nuove dove viene affermata l’importanza del
fattore umano in qualsiasi organizzazione produttiva.
Tali ipotesi hanno dato vita a quel movimento noto col nome
di Human Relation il cui portavoce più
illustre fu Elton Mayo ( psicologo australiano nato nel 1880 e morto nel
1949).
Il grande contributo
di Mayo è stato quello di aver “rivalutato l’elemento umano
nell’ambiente industriale” attraverso il rigore scientifico, allo scopo di
salvaguardare l’integrità psichica e fisica del lavoratore, messa in pericolo,
dal razionalismo individualistico dei seguaci di Taylor.
Bisogna dire che prima degli studi di Mayo, vari studiosi
avevano effettuato studi e ricerche nell’ambito della psicologia industriale e
sociale.
Tali studi ebbero come punto principale la “fatica fisica” e
la “fatica psicologica” chiamata poi monotonia, ed emerse che la “fatica non è
uguale per tutti e le risposte all’affaticamento e al il ritmo dello stesso
lavoro è differente per le diverse persone”. Così, si constata che la noia sul
lavoro è massima quando bisogna effettuare un lavoro particolarmente ripetitivo
e al tempo stesso non consente distrazioni; al contrario la noia può essere
evitata quando il lavoro è ricco di significato e di responsabilità.
Mayo fece tesoro di questi suggerimenti e infatti
riportò un grande successo nelle sue
proposte. Intorno ad Helton Mayo nacque anche un gruppo di ricercatori che
venne identificato con il nome di Scuola Delle Relazioni Umane, che si basa sui
cosiddetti esperimenti di Hawthorne
(azienda in cui vennero fatti gli esperimenti).
In particolare la teoria di Mayo si rifà a 3 esperimenti:
il primo riguarda il montaggio dei relè telefonici e lo
scopo di questa indagine era quello di verificare:
se la produttività veniva influenzata da fattori economici e
materiali o da fattori psicologici;
come poteva essere il lavoratore in gruppo e se poteva avere
buoni rapporti con i superiori.
Venne costituito un gruppo di 5 ragazze, che fu separato
dall’attività normale della fabbrica e tale gruppo doveva effettuare solo
l’operazione del montaggio dei relè telefonici. Il lavoro, quindi, era molto
semplice e molto misurabile. Al gruppo di lavoro si aggiunse un osservatore
fisso (era un delegato della direzione e non un componente del gruppo di
ricerca) che per tutto il periodo dell’esperimento ebbe il compito di osservare
ma anche di facilitare i rapporti all’interno del gruppo e tra il gruppo e la
direzione aziendale.
La sperimentazione ebbe la durata di due anni, nel corso dei
quali furono introdotte delle modificazioni, quali:
la riduzione complessiva dell’orario
introduzione di una pausa lavorativa e dei premi
possibilità di effettuare una rapida colazione
illuminazione dell’ambiente lavorativo
I risultati furono che la produzione aumentò fin dall’inizio
e continuò sempre a crescere e secondo Mayo questo si verificò perché:
l’aumento del rendimento operaio dipende soprattutto
dall’instaurarsi di rapporti amichevoli e positivi;
i buoni risultati derivano dalle pause di riposo, proprio
perché la produzione aumenta sempre dopo la pausa;
l’incentivo economico non ha una grande rilevanza.
Quindi Mayo notò che il rendimento operaio dipende
soprattutto dalla capacità di instaurare nel gruppo e tra il gruppo e l’azienda
dei buoni rapporti.
Il secondo esperimento (o ricerca) riguarda il programma di
intervista. In seguito alla ricerca fu avviato un programma di lavoro che
potesse migliorare il clima sociale in fabbrica. Tale programma prevedeva la
somministrazione di una serie di interviste. Lo scopo di tali interviste non
era solo quello di raccogliere dati e informazioni , bensì, di consentire agli
operai di poter esprimere più o meno liberamente le loro opinioni sul lavoro in
fabbrica, sul rapporto con i colleghi e con i superiori e segnalare eventuali
problemi da risolvere. Secondo Mayo tutto ciò servì a migliorare il clima
lavorativo e i rapporti, oltre ad avere una migliore conoscenza dei propri
dipendenti da pare della direzione aziendale.
Il terzo esperimento riguarda l’analisi del gruppo del
monitoraggio dei quadri telefonici: i ricercatori in questo terzo lavoro si
concentravano maggiormente sulla funzione del fattore umano nella produttività
umana. Anche in questo caso viene allestita una sala di osservazione e in essa
vengono fatti lavorare 14 operai, staccati dalla normale linea di lavoro e
addetti la montaggio dei quadri telefonici. L’ipotesi di partenza era legata alla teoria di Taylor:
gli uomini e gli operai tendono per natura a lavorare meno di quanto potrebbero
ed è, quindi, compito del dirigente trovare il modo di farli lavorare con un ritmo più elevato, fissando delle norme.
Il gruppo di ricerca, nel corso dell’esperimento, trovò conferme nelle teoria
di Taylor, però, affermò che otre alle norme formali emanate dal dirigente, vi
sono anche norme informali. In pratica, nel gruppo di lavoro alcune norme sono
elaborate dal gruppo stesso e vanno ad influenzare i rapporti e possono essere
differenti dalle norme formali (ufficiali). Mayo notò, quindi, che per
migliorare la produttività bisognava intervenire non solo sulle norme ufficiali
ma anche sui rapporti informali mediante osservatori oppure capisquadra che
sappiano sfruttare i rapporti informali o personali.
Le Human Relation, che incentivarono lo studio sui gruppi e
sul loro funzionamento, furono definite
con il nome di “Taylorismo dal volto umano” ma non riuscirono mai a superare
l’impianto organizzativo creato dallo Scientific Managment.
Questo perché non tutti i capi erano disposti a rinunciare
al desiderio di comandare e favorire, invece, la produttività di gruppo.
4.LO SVILUPPO ORGANIZZATIVO
In tale contesto si afferma anche la Teoria Sistematica che
“inserisce il fattore umano come uno degli elementi che interagisce nel
definire le caratteristiche e il funzionamento dell’organizzazione”. (Si
contrappone a Taylor che enfatizzava l’organizzazione a scapito del fattore
umano).
La teoria sistematica è una derivazione della teoria
generale dei sistemi, nata nella seconda metà del secolo scorso, e la cui
paternità è riconosciuta al biologo Bertalanfy, il quale ha il merito di aver individuato
che “ogni entità studiata può essere ricondotta al concetto di sistema e più
precisamente di sistema aperto”.
Il sistema aperto è un insieme di oggetti o elementi in
relazione tra di loro ed è aperto perché interagisce con l’ambiente esterno. Di
conseguenza, secondo la prospettiva sistematica anche l’organizzazione è la
modalità secondo la quale gli organismi viventi formano un complesso unitario,
composto da diversi sottosistemi (organi) che interagiscono tra loro.
L’organizzazione a sua volta è un sottosistema di un sistema più grande che è il sistema sociale.
Quindi la teoria sistemica ha evidenziato il fatto che le
organizzazioni non sono entità isolate ma sono inserite in un ambiente dinamico
con il quale e nel quale hanno rapporti di scambio tra loro.
Infatti il rapporto di interdipendenza con l’ambiente
consente la sopravvivenza dell’organizzazione, in quanto il suo successo è dato
dalla capacità di adeguarsi ai cambiamenti esterni.
Tutti i sottosistemi che compongono il sistema hanno lo
stesso scopo, cioè quello di realizzare l’obiettivo globale (Rice chiama
Primary Task: compito primario) dell’organizzazione che permette la sua
sopravvivenza.
L’organizzazione secondo la prospettiva sistemica è la
modalità secondo la quale gli organismi viventi formano un complesso unitario
composto da diversi organi tra loro interagenti.
Per fare questo i sottosistemi interagiscono con il loro
ambiente attraverso meccanismi di imput (immissione) che permettono di
trasformare alcuna risorse; e attraverso meccanismi di autput (emissione), cioè
gli elementi trasformati diventano obiettivi di un altro sistema.
Ciò dimostra che i sottosistemi non interagiscono in modo
causale, ma seguono una logica per realizzare l’obiettivo primario
dell’organizzazione.
Secondo Schein i punti fondamentali dell’analisi sistematica
sono:
le organizzazioni sono sistemi aperti in continua
interazione con l’ambiente;
l’organizzazione è dotata di una molteplicità di scopi e
funzioni che implicano a loro volta molteplici interazioni con l’ambiente;
l’organizzazione è composta da diversi sottosistemi anche
essi in relazione tra loro;
l’organizzazione esiste in un ambiente a sua volta dinamico,
composto da altri sistemi a da questo ambiente provengono alcune esigenze e
limitazioni per il funzionamento dell’organizzazione;
i legami tra organizzazione e ambiente rendono difficile
l’individuazione dei loro confini, per cui è preferibile parlare di processi di
imput e autput.
LE ORGANIZZAZIONI COME SISTEMI SOCIO-TECNICI
L’analisi sistematica ha indicato l’organizzazione come un
insieme di sottosistemi, ognuno dei quali ha un suo compito.
Un modo per evidenziare i sottosistemi è individuarli in
base alle funzioni che essi svolgono nell’organizzazione. Katz e Kahn
propongono una suddivisione funzionale dei sotto sistemi di questo tipo:
sottosistema di produzione che si occupa della
trasformazione di imput e output ;
sottosistema di mantenimento che si occupa di equilibrare le
diverse esigenze di compito e le necessità umane al fine di mantenere in
funzione il sistema;
sottosistema adattivo che ha il compito di sondare i
cambiamenti provenienti dall’esterno dell’organizzazione;
sottosistema di confine che ha il compito di gestire l’area
intermedia tra l’organizzazione e l’ambiente.
French e Bell propongono la suddivisione in questo modo:
sottosistema di obiettivi che consiste nell’insieme di
obiettivi dell’organizzazione;
sottosistema di compiti che s interessa della divisione del
lavoro tra i membri dell’organizzazione;
sottosistema strutturale che comprende le regole di lavoro;
sottosistema umano-sociale composto da capacità e abilità
dei membri, lo stile di direzione,il sottosistema formale ed informale;
sottosistema dei rapporti faccia a faccia con l’esterno che
si occupa della raccolta dei dati, reperimento di risorse,ecc.
Molti studiosi hanno proposto una suddivisione funzionale
dei sottosistemi e la distinzione più famosa è quella proposta da Trist
attraverso il concetto di sistema socio-tecnico. Secondo Trist le
organizzazioni sono individuabili in base all’interazione di:
variabili tecnologiche (impianti, processi di lavoro,
informazioni)
variabili sociali (rapporti e relazioni tra persone)
Il sottosistema tecnologico e quello sociale sono fortemente
interdipendenti, quindi una modifica di uno dei due produce effetti sull’altro
e viceversa.
Di conseguenza, secondo l’analisi socio-tecnica, si ottiene
un’organizzazione efficiente ricercando le combinazioni ottimali tra i due
sottosistemi, evitando di considerali separatamente ma osservando gli effetti
che le variazioni di un sistema producono sull’altro.
CHE COS’E’
L’ORGANIZATION DEVELOPMENT
Le fondamenta dell’organization Development (sviluppo
organizzativo) le ritroviamo negli studi di Mayo e nel contributo di Lewin.
Essa nacque e si sviluppò negli anni ‘60 in un clima di
mutamenti sociali, economici e tecnologici ed è un indirizzo di ricerca che si
prefigge l’obiettivo di conciliare gli indiscutibili bisogni dell’uomo con il
raggiungimento della massima efficienza organizzativa.
In altre parole lo sviluppo organizzativo rappresenta un
processo di cambiamento e di adattamento continuo da com’è verso come dovrebbe
essere un’organizzazione.
Secondo Mc Gregor c è
la necessità di una nuova filosofia organizzativa basata sulla rivalutazione
della creatività e della potenzialità dell’individuo,sull’autodirezione e
sull’autocontrollo elementi che possono essere chiariti cola la teoria X e l’altra teoria Y.
La teoria X si basa su un triplice assunto:
la direzione è responsabile dell’organizzazione degli
elementi dell’impresa produttiva,compreso il fattore umano;
le persone vanno dirette e controllate per adattare il loro
comportamento alla necessità dell’organizzazione;
senza l’intervento
diretto le persone rimarrebbero passive.
La teoria Y può essere ricompressa nelle seguenti
affermazioni:
La direzione è responsabile degli elementi dell’impresa
produttiva nell’interesse dei fini economici;
La passività delle persone non è innata , ma è una
conseguenza delle esperienze avute all’interno delle organizzazioni;
La motivazione,la capacità di assumersi responsabilità,il
potenziale di sviluppo sono presenti negli individui;
Il compito della direzione è quello di permettere che esse
vengano comprese e sviluppate autonomamente attraverso il coordinamento dell’organizzazione.
Seguendo la teoria X ne deriva l’esigenza di controllare
autoriatariamente,in quanto gli obiettivi degli individui sono in
contrapposizione con quelle aziendali; mentre seguendo la teoria Y si può
adottare una conduzione aziendale per obiettivi e ricercare l’integrazione tra
bisogni individuali ed esigenze dell’organizzazione.
Le radici dell’OD si possono individuare proprio tra queste
formulazioni teoriche, che tentano di risolvere il problema dell’integrazione
tra individuo e organizzazione.
L’organization Development cerca di stimolare la crescita di
strutture organizzative flessibili, capaci di adeguarsi alle diverse
circostanze.
Lo scopo è quello di trovare per ogni specifica
organizzazione la combinazione più efficace di caratteristiche organiche e
meccaniche. Infatti, esso cerca di mettere in pratica alcuni obiettivi, quali:
il miglioramento dei rapporti interpersonali
la riduzione delle tensioni nei gruppi di lavoro
lo sviluppo di nuove tecniche di risoluzione dei conflitti
Tale contributo, però, pone un’ enfasi eccessiva sui
cambiamenti provenienti dall’esterno, piuttosto che su quelli interni.
Quindi le organizzazioni appaiono, secondo tale prospettiva,
in balia di ciò che accade al di fuori di esse. La flessibilità è l’unica
componente decisiva.
5 LA CULTURA ORGANIZZATIVA
9 LA LEADERSHIP
9 LA LEADERSHIP
La cultura è strettamente connessa con la presenza umana
nell’organizzazione,essendo il prodotto di idee,pensieri,valori di persone che
ne hanno fatto parte in passato e continuano a operare nel presente.
Il processo di apprendimento è lungo e complesso. Molti
aspetti del comportamento degli individui all’interno delle strutture appaiono
di difficile comprensione se non inquadri in uno schema collettivo,in una sorta
di modello comune ai membri del gruppo,ma solo a quella determinata
organizzazione possiamo dunque definire la cultura come una sorta di ossatura
che consente agli individui o al gruppo stesso di rappresentare e
rappresentarsi i problemi,le situazioni,i contesti,insomma tutti gli aspetti
della vita organizzativa sia interna che esterna.
Il modello giapponese del Totale Qualità Management hanno
avuto un ruolo determinante nella diffusione del concetto di cultura
organizzativa,le ragioni di tale successo vanno ricercate nel modo diverso di
concepire e vivere il lavoro da parte dei dipendenti.
In Giappone,primeggiano valori legati alla tradizione e alla
solidarietà, mentre, nelle nazioni occidentali prevale una cultura
individualista e competitiva.
La cultura organizzativa permette di chiarire le motivazioni
che stanno alla base dei comportamenti,ciò significa rendere evidenti quei
fenomeni che a prima vista possono apparire oscuri e a volte persino
irrazionali,ma che determinano la qualità e l’essenza stessa dell’unità
organizzativa.
Jaques è tra i primi studiosi a occuparsi di cultura
organizzativa trattando le conoscenze,le attitudini, i valori evidenziando
l’importanza dei processi di socializzazione e gli effetti dei cambiamenti di
cultura sulla personalità degli individui, in particolare dimostra come la cultura
sia un potenziale di sistema di controllo sui comportamenti.
Esiste un’intrinseca difficoltà a fornire una spiegazione
del fenomeno “cultura”che pur manifestandosi negli aspetti fisici e simbolici
dell’azione organizzativa,non è però qualificabile solo come aspetto tangibile
di essa.
La metafore,sostiene Smircich è un aspetto fondamentale del
pensiero umano:è un modo attraverso cui riusciamo a conoscere il nostro mondo.
Per Koch e Deetz percezioni e conoscenza sono legate in un processo
interpretativo che è strutturato metaforicamente. Gli studiosi e gli stessi
attori organizzatovi usano una varietà di metafore e immagini per
limitare,incorniciare e differenziare la complessità di alcuni aspetti
dell’organizzazione.
L’uso di particolari metafore spesso non è una scelta
consapevole,né esplicita ,ma può essere suggerita dal tipo di approccio al
concetto di organizzazione, anche perché lo stesso termine organizzazione è una
metafora riferita all’esperienza di coordinamento collettivo e ordine.
La cultura organizzativa si caratterizza per l’
articolazione a più livelli: il livello degli artefatti,quello dei valori e
infine quello degli assunti di base.
Il livello più superficiale è composto dalle manifestazioni
visibili della cultura,l’architettura dell’organizzazione,la tecnologia, il
modo di vestire,la disposizione degli uffici, i modelli comportamentali. Tali
espressioni vengono definite da Schein artefatti perché facili da individuare
ma non da interpretare,esse ci consentono di descrivere il fenomeno culturale,
ma non aiutano la comprensione delle motivazioni profonde dei comportamenti
organizzativi.
Il livello intermedio è rappresentato dai valori che
esprimono una buona consapevolezza culturale, ma non spiegano in maniera
esauriente che cosa la cultura sia. Spesso i membri del gruppo attribuiscono ai
valori una funzione normativa,utilizzandoli come un modello di comportamento
desiderato,altre volte vengono usate per dare spiegazioni a dei comportamenti.
Gli assunti di base sono inconsci non nel significato
freudiano del termine,semplicemente non sono direttamente accessibili vengono
dedotti attraverso le loro espressioni visibili.
Le logiche di azione del comportamento organizzativo sono
gli assunti culturali di base, che sintetizzano le risposte apprese in quel
gruppo o che sono stati ritenuti più efficaci per risolvere una categoria di
problemi.
L’insieme degli assunti di base di un ‘organizzazione è
definito da Schein paradigma culturale che è un insieme di assunti interrelati
che formano un modello coerente.
La coerenza paradigmatica è una qualità delle organizzazioni
che hanno una cultura forte,cioè che hanno sviluppato uno schema di assunti tra
di loro articolato in modo armonico,diversamente, l’assenza o il disordine
degli assunti di base sono propri di culture non ancora completamente formate o
comunque sono indice di una conflittualità fra più culture.
LE FUNZIONI DELLA CULTURA
Il processo di apprendimento della cultura inizia quando
l’unità organizzativa nell’affrontare il sistema esterno adotta delle soluzioni
che proprio perché vincenti vengono ripetute e confermate ed entrano a far
parte integrante della cultura stessa. L’ambiente esterno limita le
organizzazioni nella scelta delle soluzioni da adottare e ,inoltre, non tutte
le possibili soluzioni avranno lo stesso effetto su gruppi diversi,poiché anche
le caratteristiche interne del gruppo sono determinanti nella scelta delle
soluzioni da adottare per risolvere i problemi di adattamento esterno.
L’interazione interna rappresenta il modo in cui i membri
del gruppo e i loro leader organizzano le reti di relazioni per garantirsi
prestazioni efficienti,stabili e continue. Questo avviene tramite un sistema di
comunicazione,un linguaggio comune e comuni categorie concettuali che
permettono ai membri di comprendersi tra loro, alcuni metodi per definire quali
sono i confini del gruppo e i criteri di appartenenza al gruppo.
Le organizzazioni quindi si affidano alla cultura per
affrontare le due problematiche( integrazione interna e adattamento esterno)
tra loro interdipendenti e
interconnesse,che risultano essere cruciali per la sopravvivenza. la cultura
permette di concentrare l’attenzione solo su quelle percezioni che riguardano
lo specifico ambiente,offrendo stabilità e permettendo agli individui di rilassarsi.
È un processo di apprendimento che promuove quelle risolse che permettono di
raggiungere determinati obiettivi e che contribuisce alla costruzione della
cultura organizzativa. Le risposte apprese saranno quelle che favoriranno
l’adozione di comportamenti tesi al contenimento e alla riduzione di situazioni
ansiogene.
Una cultura
organizzativa è composta infatti sia da elementi destinati a risolvere i
problemi concreti, sia da elementi destinati a ridurre l’ansia. Le componenti
culturali che si fondano sulla riduzione sono più stabili rispetto a quelle che
si basano sulla soluzione di problemi concreti, sia per la natura stessa dei
sistemi di riduzione dell’ansia, sia perché i sistemi umani hanno bisogno di un
certo grado di stabilità per evitare l’ansia. Se tratta di modificare un
meccanismo di riduzione dell’ansia, è quindi necessario prima di trovare
l’origine dell’ansia. La riduzione dell’incertezza, la soddisfazione del
bisogno di coerenza dei membri, la stimolazione del senso di appartenenza, la solidarietà
con obiettivi comuni attribuiscono alla cultura un valore strumentale. La
cultura può essere intesa come un
processo di controllo informale attuato non attraverso l’ imposizione di regole
o norme imperative, ma tramite l’apprendimento organizzativo di elaborazione
che, pur essendo collegate a un determinato momento temporale e ambientale,
assumono una propria connotazione e autonomia. Se è più facile riscontrare
culture unitarie durante la fase di fondazione delle organizzazioni, è anche
vero che al crescere della dimensione è più probabile la formazione di gruppi
che si distinguono per condividere dimensioni culturali proprie.
LE ESPRESSIONI DELLA
CULTURA : SIMBOLI, VALORI E MITI
I SIMBOLI: si affermano come uno strumento importante per la
trasmissione della cultura, proprio perché facilmente interpretabili. Infatti,
può essere considerato simbolico tutto quello che ha la capacità di
caratterizzare in maniera specifica la vita dell’organizzazione.
I VALORI: riflettono una determinata cultura aziendale.
L’adesione ad un modello valoriale consente alle persone che lavorano
nell’organizzazione di realizzare un comportamento che privilegia non solo
obiettivi di tipo quantitativo,ma soprattutto una strategia unificante e
condivisa da tutti al di là degli interessi personali.
L’IDEOLOGIA:si ha quando un insieme di valori,assume un
linguaggio specifico e distinto, diventa un’ideologia. L’ ideologia,serve sia
come chiave di comprensione,sia come guida per realizzare nel migliore dei modi
i cambiamenti desiderati.
TIPI DI CULTURA ORGANIZZATIVA
Ebers ha individuo 4 tipi ideali di cultura:
cultura organizzativa legittima: trae valori e norma
dall’ambiente di riferimento;
cultura organizzativa efficiente: è orientata all’obiettivo
cioè al raggiungimento dei risultati;
cultura organizzativa tradizionale: è basata
sull’affiliazione tra i membri,condivisione di significati profondi,fiducia
reciproca;
cultura organizzativa utilitaristica: basato non tanto sulla
condivisione de valori comuni, ma soprattutto sul conseguimento d’interessi,
sulla negoziazione tra contributo dato e ricompensa ottenuta.
CAMBIAMENTO CULTURA E CONTINUITà
Nel dibattito sul cambiamento culturale delle
organizzazioni,ci sono due posizioni estreme:da un lato i pragmatici che
ritengono che le organizzazioni possano,anzi debbano cambiare,ma soprattutto
che possano essere guidate nel cambiamento; dall’ altro ci sono puristi secondo
cui le culture organizzative non cambiano ma evolvono e di conseguenza il
cambiamento non si può gestire.
Le organizzazioni si distinguono fra loro poiché assumono
proprie fisionomie culturali che non rimangono immutate nel corso del tempo ma
che variano,pur con resistenze a volte notevoli,al verificarsi di eventi sia di
tipo esterno che interno.
Ma solo i cambiamenti di grande portata plasmano la
cultura,anzi molto spesso si parla di evoluzione naturale proprio per indicare
quel processo lento e invisibile che promuove gli assunti dimostrano di
funzionare meglio e che quindi vengano trasmessi anche ai nuovi membri del
gruppo.
La cultura, è frutto di un apprendimento e può rappresentare
,a seconda dello stadio evolutivo dell’organizzazione ,sia una garanzia di
stabilità e continuità nonché di flessibilità ed efficacia, sia un vero e
proprio ostacolo ed impedimento al cambiamento che è indispensabile per la
sopravvivenza della stessa organizzazione,perché il cambiamento indica
l’adattamento all’ambiente esterno.
Gagliardi sostiene che l’organizzazione deve cambiare
l’identità per sopravvivere ,dove l’identità organizzativa è lo stile
distintivo dell’organizzazione, ovvero abilità a svolgere un particolare
compito.
La cultura appresa tramite esperienze positive da un lato
genera coesione e rafforza l’identità organizzativa,dall’altro suggerisce una
tendenza alla continuità culturale che induce a interpretare il cambiamento
spontaneo e l’adattabilità delle organizzazioni come manifestazioni di una
strategia primaria in mantenimento dell’identità organizzativa,dall’altro
suggerisce una tendenza alla continuità culturale che induce a interpretare il
cambiamento spontaneo e l’adattabilità delle organizzazione come manifestazioni
di una strategia primaria di mantenimento dell’identità dell’organizzazione.
Il cambiamento è dunque un adattamento all’ambiente
esterno,dal quale l’organizzazione trae l’opportunità e o suggerimenti per
selezionare quelle caratteristiche interne che si rivelano adeguate non solo
per la sopravvivenza e la continuità del gruppo,ma anche per il suo successo.
6. IL CLIMA ORGANIZZATIVO
Esistono vari approcci che hanno tentato di definire il
clima organizzativo.
l’approccio strutturale: secondo questo approccio nella
definizione di clima intervengono fattori personali-individuali e fattori
ambientali-situazionali. Ma sono soprattutto questi ultimi ad avere maggior
peso: l’ambiente A con le sue caratteristiche oggettive determina il clima
dell’organizzazione,indipendentemente dalle persone o dalle percezioni
soggettive. Il clima è una manifestazione della struttura organizzativa,ovvero
un insieme di caratteristiche che descrivono un’organizzazione,che la
distinguono dalle altre organizzazioni.
l’approccio percettivo: è la prospettiva che enfatizza il
peso della P (persona),secondo questo approccio,la principale proprietà del
clima è quella di riflettere le descrizioni che gli attori organizzativi fanno
delle politiche,delle pratiche e delle condizioni esistenti nell’ambiente di
lavoro. Il clima dipende dalla situazione ed è una percezione individuale degli
eventi organizzativi ritenuti significativi per l’organizzazione nel suo
complesso e per il proprio stare nell’ organizzazione,il clima è riflesso della
situazione nella misura in cui i soggetti attribuiscono importanza agli stimoli
che gli provengono dall’ambiente.
l’approccio interazionista: questo approccio come ricorda
anche il termine stesso,spiega il clima come prodotto dell’interazione tra P e
A , tra gli individui e l’organizzazione. Clima e struttura non sono
contrapposte ma integrate,la realtà strutturale può dar vita a una realtà
percettiva e a significati che si manifestano come clima e che variano da
organizzazione a organizzazione.
l’approccio culturale: anche l’approccio culturale si
propone come una prospettiva di sintesi:infatti, concentrare il focus
attenzionale nell’interazione tra le persone non spiega come l’ambiente possa
interferire nella formazione del clima organizzativo interagendo tra loro,ma il
clima si forma non è indipendentedal contesto,dalla storia,dalle norma,dai
valori, in altre parole dalla cultura organizzativa. Secondo Moran e Volkwein il clima ha il compito di spiegare
come i gruppi interpretano e costruiscono la realtà attraverso la cultura
organizzativa,il clima in questa prospettiva fa parte della cultura e si
colloca in particolare tra gli artefatti e i valori.
IL CLIMA ORGANIZZATIVO: DEFINIZIONI
La difficoltà nel dare una definizione condivisa di clima ha
portato diversi ricercatori a strutturare i contributi esistenti in modo tale
da fornire una visione globale sugli studi sul clima e un punto di riferimento
utile per ulteriori ricerche. La ricostruzione storica dell’evoluzione degli
studi di clima operata da Quaglino e Mander evidenzia passaggi diversi ma non
necessariamente in contraddizione. Anche Forehand e Gilmer propongono una
definizione di clima organizzativo considerandolo come un elemento proprio del
sistema organizzativo,non riduttivisticamente identificato nella somma di
opinioni individuali e ne evidenziano due caratteristiche fondamentali: la sua
multidimensionalità e dunque il suo essere fenomeno complesso cui partecipa una
pluralità di forza; la sua concretezza ovvero la sua realtà fenomenologia al di
là della sua possibilità di rilevazione da parte dei ricercatori.
Il clima è considerato variabile indipendente e come tale
capace di determinare il comportamento dei soggetti dell’organizzazione sulla
base di 5 microvariabili: la dimensione del gruppo del lavoro,la struttura
dell’autorità e delle relazioni tra gruppi e tra persone,lo stile di
leadership,il numero delle componenti del sistema organizzativo e della natura
delle interazioni,la direzione della meta e degli obiettivi organizzativi.
Successivamente si presenta il problema della
riproblematizzazione del concetto,ovvero per il tentativo di trovare una
formula modellistica soddisfacente che comprenda variabili per definizioni
psicosociali,di comportamento,soggettive,accanto a variabili eminentemente
strutturali.
Dunque possiamo dire che il problema delle definizioni del clima appare complesso:
infatti, si passa da quelle più generali che vedono nel clima una percezione
del carattere o degli attributi essenziali di un sistema organizzativo,a quelle
più focalizzate in cui il clima appare come una valutazione della qualità della
relazioni interne.
CLIMA ORGANIZZATIVO E CLIMA PSICOLOGICO
Il dibattito sul clima organizzativo,riguarda anche la
differenza tra clima psicologico dell’individuo e clima organizzativo.
James e Jones forniscono una distinzione precisa:
il clima organizzativo si riferisce ad attributi
organizzativi ed ai loro effetti o stimoli principali;
il clima psicologico si riferisce ad attributi individuali
quali i processi psicologici che intervengono e attraverso cui si determinano
una serie di atteggiamenti attese e comportamenti.
il clima psicologico influenza i bisogni e le motivazioni
degli individui e determina comportamenti organizzativi quali l’assenteismo e
le qualità del lavoro.
Inoltre il clima psicologico contribuisce insieme alla
personalità individuale alla creazioni del clima ideale che rappresenta le
aspettative dei soggetti per un modello di organizzazione ottimale.
CLIMA,MOTIVAZIONE E SODDISFAZIONE
Uno dei fattori che inquinano lo studio dei climi
organizzativi è dato dalla confusione che impropriamente si ritrova fra il
concetto di clima e il concetto di motivazione. A questo si aggiunge inoltre
un’ulteriore complessità,determinata da una definizione operativa di
soddisfazione.
La dimensione propriamente motivazionale ha fatto si che si
utilizzassero le dimensioni del clima e della soddisfazione come indicatori del
livello motivazionale. Quaglino sostiene che la relazione tra motivazione,
clima e soddisfazione in realtà non esiste. Resta comunque aperto il dibattito
se siano motivazione e soddisfazione a generare un buon clima o se viceversa il
clima organizzativo sia determinante nelle motivazioni o nella soddisfazione.
La soddisfazione fa riferimento a una dimensione valutativo/affettiva della
realtà lavorativa ed è la percezione di emozioni e sentimenti filtrate
attraverso il sistema individuale di valori e norme,il clima è riconducibile a
percezioni organizzativo/descrittive,in quanto descrizione appunto di eventi
organizzativi privi di connotazione valutativo/affettiva. Alcune ricerche sul
clima hanno evidenziato attraverso alcuni item climatici il profilo di un
ambiente organizzativo soddisfacente. È probabile che le relazioni tra clima e
motivazione siano reciproche e bidirezionali: i vissuti individuali positivi
contribuiscono a incrementare la spinta motivazionale, la quale a sua volta
alimenta vissuti organizzativi positivi e dunque un clima migliore.
CLIMA, BENESSERE E SALUTE ORGANIZZATIVA
Quando si parla di salute ci si riferisce ad assenza di
malattia fisica o psichica,o come vogliono i più attuali orientamenti,come una
condizione positiva da mantenere costantemente, il benessere psicologico è un
insieme di sentimenti ,percezioni e valutazioni che le persone fanno nei
confronti della propria esistenza, del proprio ambiente familiare e
dell’ambiente lavorativo. D’amato sostiene che gli studi che s interessano di
clima organizzativo e benessere psicologico possono essere ricondotti a 3
filoni:
riguarda gli approfondimenti sulle relazioni tra dimensioni
di benessere e clima organizzativo;
relativo agli antecedenti di clima che influenzano il
benessere organizzativo;
indirizzato a selezionare quei contesti organizzativi
interessati a rapidi cambiamenti.
Avallone e Paplomatas definiscono la salute organizzativa
come l’insieme dei nuclei culturali,dei processi e delle pratiche organizzative
che animano la convivenza nei contesti di lavoro promuovendo,mantenendo e
migliorando il benessere fisico,psicologico e sociale delle comunità
lavorative.
Clima e salute organizzativa hanno dunque in comune alcuni
aspetti ma cio non permette di sovrapporre o includere un fenomeno nell
altro,ma restano due entità separate.
CLIMA E GIUSTIZIA ORGANIZZATIVA
Con giustizia organizzativa si intende la percezione di
quanto si è tratti in modo equo dall’organizzazione
È in termini di interactional justice che la giustizia
organizzativa si avvicina molto al costrutto clima organizzativo e ai termini
della soddisfazione lavorativa. In alcuni casi si è tentano di dimostrare come
la giustizia nelle relazioni sia un antecedente del clima,alcuni studiosi hanno
ripreso l’espressione justice climate x sottolineare che nonostante la
percezione della giustizia abbia origina a livello individuale,essa diventa un
elemento climatico nella misura in cui la percezione dei membri viene condivisa
col gruppo
CLIMA E CULTURA ORGANIZZATIVA
Storicamente,si è incominciato a parlare di clima a partire
da Lewin,mentre è solo negli anni 70 che si da inizio al dibattito sulla
cultura organizzativa. Le differenze tra i due termini appaiono a volte
talmente sottili da renderli intercambiabili. Il clima organizzativo è un
aspetto meno stabile rispetto alla cultura stessa,appare quindi transitorio e
suscettibile alle variazioni, al contrario,la cultura essendo più radicata è
anche più difficile da cambiare. Il clima si forma molto più velocemente,anche
in assenza di una vera e propria storia, mentre la cultura viene trasmessa
essendo una necessità per la sopravvivenza del gruppo. Per Spaltro il clima non
è un effetto dell’organizzazione,bensi ne è parte integrante e in quanto tale
contribuisce alla sua efficienza.
7. LA COMUNICAZIONE NELLE ORGANIZZAZIONI
Per iniziare potremmo dire che la comunicazione non si
identifica semplicemente come strumento,ma è talmente pervasiva che costituisce
un modo di essere dell’uomo,l’uomo pertanto non sceglie se essere o meno
comunicante,ma può scegliere intenzionalmente ogni volta se comunicare e in che
modo farlo. Diverse discipline hanno tentato di proporre o imporre il loro
punto di vista,si sono cosi articolate alcune scuole di pensiero tra cui:
il modello matematico interpreta la comunicazione essenzialmente
come trasmissione di informazioni. Secondo cui la comunicazione è un passaggio
di informazioni attraverso un canale,sotto forma di messaggio da un emittente
che codifica a un ricevente che lo decodifica.
L’approccio semiotico fa riferimento alla semiotica,ovvero
alla scienza che studia i segni. Secondo questa prospettiva la comunicazione
passa attraverso segni. La proprietà fondamentale di ogni messaggio è di avere
un senso per i soggetti che comunicano.
L’approccio pragmatico considera invece l’uso dei
significanti,cioè si concentra su come i significanti sono utilizzati dai
soggetti comunicanti in relazione alle diversa situazioni. la comunicazione è
in questa prospettiva un processo, un’azione, un fare: Austin elaborando la
teoria degli atti linguistici sosteneva che dire qualcosa è anche sempre fare
qualcosa.Anche la sociologia si è occupata della comunicazione,in una
prospettiva che non può che fare riferimento alla dimensione sociale e
istituzionale nel quale si esplica. La comunicazione è prodotto della
microsocietà e della macrosocietà.
L’approccio psicologico si è invece interessato della
comunicazione come dimensione propria dell’individuo che esprime la sua
identità personale e la posizione sociale di ogni soggetto.
Ci sono stati vari studi sulla comunicazione,ma il vero
cambiamento avviene alla fine degli anni 60 grazie al contributo dello
psicologo Watzlawick e alla scuola di Paolo Alt,che sottolineano le
implicazioni interpersonali di alcuni assiomi della comunicazione:
primo assioma:è impossibile non comunicare ,cioè la
comunicazione avviene anche quando non si hanno vere e proprie azioni
comunicative,come il silenzio,l’inattività che sono forme di
comunicazione,ossia messaggi ai quali coloro che partecipano alla
comunicazione,non possono non rispondere;
secondo assioma: ogni comunicazione presenta un aspetto di
contenuto ed uno di relazione cioè in ogni messaggio c è il cosiddetto aspetto
di notizia o contenuto che riguarda la trasmissione delle informazioni,e c’è il
cosiddetto aspetto di comando o relazione che si riferisce al tipo di rapporto
che s’istaura tra gli interlocutori;
terzo assioma:la natura e la durata della relazione dipende
dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti,cioè gli
scambi di comunicazione,avvengono in maniera sequenziale,come se seguisse una
punteggiatura che permette ai comunicanti di prolungare in maniera armonica la
comunicazione;
quarto assioma: qualsiasi scambio di comunicazione può
essere simmetrica o complementare,cioè a seconda che si basi sull’uguaglianza o
sulla differenza degli interlocutori.
Da questa teoria,deriva la differenza tra comunicazione ed
informazione,cioè,la comunicazione è pluridimensionale a differenza
dell’informazione che c è il trasferimento di dati da un’emittente ad un
ricevente e questo non implica necessariamente l’esistenza di una
relazione-rapporto di coinvolgimento personale.
COMUNICAZIONE E
ORGANIZZAZIONE
Nella teoria dell’organizzazione,la comunicazione occupa un
posto centrale. La comunicazione organizzativa,è una funzione del management
diretta a stabilire e mantenere conoscenze e reciproche comprensioni,sia
all’interno che all’esterno dell’azienda.
Troppo spesso si è abusato della comunicazione nelle
organizzazioni attribuendogli un ruolo imprecisato e onnicomprensivo. Nelle
organizzazioni ritroviamo almeno tre tipo di comunicazione che possiamo
distribuire lungo un continuum che va dal micro al macro; la comunicazione
interpersonale,la comunicazione grippale e la comunicazione organizzativa. In questa
distinzione rileva il numero dei soggetti che comunicano fra loto,ma
soprattutto la qualità dei soggetti,individui o entità collettive che
interagiscono e stabiliscono fra loro relazioni. L’interazione consiste in un
evento circoscritto nel tempo e nello spazio,la sequenza di più interazioni
genera una relazione,un modello cioè che riguarda il modo con cui sono
percepite e interpretate le interazioni stesse. Interazione e relazione sono in
stretta interdipendenza.
CULTURA,CLIMA E
QUALITà DELLA COMUNICAZIONE
Il problema
comunicazionale si incrocia con la personalità d’impresa che dipende dalle
caratteristiche dell’azienda stessa e da quelle del contesto socio-culturale
nel quale è collocata.
Il modello comunicazione aziendale,fa riferimento alla
differenza tra immagine ed identità aziendale:
l’immagine è la percezione della realtà organizzativa da
parte del mondo interno ed esterno all’azienda;
l’identità aziendale è il modo in cui l’organizzazione
vorrebbe che l’azienda fosse percepita dal mondo esterno.
Cultura aziendale e clima comunicazionale contribuiscono
alla costruzione dell’identità aziendale,l’immagine aziendale non sempre è
prodotto di una intenzionalità comunicativa,in essa convergono elementi
intenzionali ed elementi spontanei. La comunicazione inter-viene proprio nel
momento in cui si passa da un’immagine incidentale a un’immagine
costruita,determinata,voluta o
addirittura simulata e finalizzata a una corporate-identity. La funziona della
cultura aziendale nella morfogenesi comunicazionale risulta evidente
soprattutto laddove viene a ridursi il margine di rischio di un’errata
interpretazione dei messaggi. Il campo semantico che è costituito dalla cultura
d’impresa e che costituisce come sistema valoriale di riferimento è la base
profonda nella quale si radicano tanto le occasione comunicative quanto le
elaborazioni dei singoli messaggi. Rimane il problema di definire la
cultura,basti ora ricordare l’intersezione fra gli elementi e gli aspetti
comunicazionali,laddove entrambi mediano
caratteristiche individuali di aggregazione umana,dove l’uno è il risultato
dell’altro e viceversa.
Il clima comunicazionale è costituito da un insieme di
caratteristiche perduranti circoscritte a un’area geografica definita,un
fenomeno che si manifesta un modo relativamente stabile,all’interno di un
determinato gruppo di individui attraverso condizioni socio-psicologiche che
caratterizzano il gruppo stesso.
La comunicazione organizzativa promuove un buon clima
aziendale laddove rafforza il senso di partecipazione e di coinvolgimento.
Clima e cultura,vincolate attraverso la comunicazione sono due determinanti
dell’assetto qualitativo delle organizzazioni e il loro peso è maggiormente
sentito nella misura in cui le problematiche delle qualità sono venute
diffondendosi con sempre maggior urgenza nei contesti produttivi.
STRUMENTI DI COMUNICAZIONE
fotocopie pag 18
IL RESPONSABILE DELLE COMUNICAIZONE INTERNA fotocopie pag 19
LA PIANIFICAZIONE DELLA COMUNICAZIONE
CMUNICATION AUDIT
L’audit riveste un ruolo estremamente importante in ogni
fase di piano di comunicazione poiché svolge una funzione di ricognizione e di
controllo,la ricognizione consiste nel rilevamento della situazione
analizzata,il controllo è il confronto della situazione rilevata con quella
ideale.
La comunication audit secondo Damascelli va condotta su tre
aree distinte:l’area tecnologica,l’area organizzativa,l’area della cultura
aziendale. L’audit nell’area tecnologica serve per ottenere una buona
conoscenza delle tecnologie comunicative disponibili e applicabili. L’audit
nell’aria organizzativa analizza le procedure che possono migliorare i flussi
di comunicazione interna eliminando processi burocratistici demotivanti e
ritardanti l’assunzione di decisioni. L’audit della cultura ha lo scopo di
verificare la consapevolezza delle politiche aziendali.
IL TELELAVORO
Il telelavoro può essere definito una modalità di lavoro
decentrato che avviene sulla base di scambi d’informazione. Il telelavoro
rappresenta una destrutturazione spazio-temporale poiché rimuove le condizioni
lovoristiche che in precedenza prevedevano una necessaria localizzazione di
grandi masse di soggetti umani e di apparati fisici,questa tipologia di lavoro
sfrutta l’immaterialità di quella particolare risorsa che è l’informazione . il
telelavoro dunque si distingue dal lavoro a domicilio per la sistematicità e
l’esclusività del rapporto sottostante,la possibilità di svolgere le attività
lavorative in forma di telelavoro dipende dalla possibilità di rendere
praticabile la comunicazione a distanza,senza farle perdere di efficace. Il
telelavoratore può lavorare ovunque mescolando anche il lavoro con le altre
attività.
8.GRUPPO, GRUPPO DI LAVORO, LAVORO DI GRUPPO
Numerosi studiosi, ritengono che la parola gruppo sia
comunemente usata in molteplici ambiti.
Sheriff (1967) afferma “che i gruppi si formano ovunque la
gente si senta costretta nella stessa barca, sia essa un quartiere, una grande
organizzazione”.
Una della definizioni più esaurienti, è quella classica di
Lewin (1948), che afferma “che il gruppo, è qualcosa di più, o per meglio dire
qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri; ha struttura propria, fini
peculiari, e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce
l’essenza, non è la somiglianza o la dissomiglianza tra i suoi membri, bensì la
loro interdipendenza”.
Sul versante quantitativo, si può genericamente affermare
che il gruppo, è un insieme numericamente ridotto di persone.
Bisogna dire, che non è tanto l’elemento quantitativo a
definire il gruppo, ma piuttosto l’elemento qualitativo: essenziale per il
divenire del gruppo, è il processo d’identificazione delle persone nel gruppo
di cui fanno parte, cioè quanto le persone si identificano al gruppo di cui
fanno parte.
Gli approcci più importanti nello studio dei gruppi sono:
Teoria di campo (di Lewin), secondo la quale il
comportamento è il prodotto di campo di determinanti interdipendenti, ed è
definito (il campo)”spazio sociale”;
Teoria dell’interazione (di Homans e Whyte) secondo la quale
il gruppo è un sistema d’individui che interagiscono;
Teoria dei sistemi, secondo la quale il gruppo è un sistema
aperto che opera equilibrando i suoi output ed input;
L’orientamento sociometrico, dove le scelte interpersonali
che collegano diverse persone, formano il gruppo;
Teoria psico-analitica (di Freud), si basa sui processi
motivazionali e difensivi dell’individuo e i suoi concetti di identificazione e
regressione;
Orientamento psicologico generale, che insiste
sull’importanza della ricezione, interpretazione, ed elaborazione delle
informazioni che riguardano l’ambiente sociale in relazione alle risposte
comportamentali dell’individuo;
Orientamento empiristico-statistico, che utilizza le
procedure statistiche per scoprire le dinamiche di gruppo;
Orientamento dei modelli formali, che cerca di costruire dei
modelli di gruppo con l’aiuto della matematica.
Uno dei concetti più usati nella letteratura scientifica sui
gruppi, è quello di “dinamica di gruppo”.
Tre sono i significati che questa espressione ha assunto:
Dinamica di gruppo, intesa come “ideologia politica”, ovvero
come il modo in cui i gruppi dovrebbero essere organizzati e gestiti; si
evidenziano così, i concetti di leadership democratica, partecipazione dei membri
alle decisioni, etc.
Dinamica di gruppo intesa come “set di tecniche” usate nei
programmi di addestramento per migliorare le relazioni umane, quali
osservazione e feedback dei processi di gruppo, decisioni di gruppo.
Dinamica di gruppo intesa come “campo d’indagine” per
approfondire la conoscenza della natura dei gruppi, delle leggi, del loro
sviluppo, delle loro interrelazioni con gli individui e con gli altri gruppi.
Quindi, secondo queste definizioni di dinamiche di gruppo, i
dinamicisti affermano che:
I gruppi sono inevitabili e presenti in tutti i contesti;
Essi mobilitano forze che producono effetti per gli
individui;
I gruppi possono produrre conseguenze positive e negative;
Una comprensione corretta delle dinamiche di gruppo,
permette di indirizzarli verso le direzioni volute.
I metodi maggiormente utilizzati nelle ricerche sulle
dinamiche di gruppo possono essere raggruppati in 5 tipologie, che sono:
Lo studio sul campo: vantaggi = grande varietà di dati e
informazioni, grande applicabilità dei risultati alla vita reale, è possibile
riscontrare il piccolo disturbo del gruppo; svantaggi = è difficile
interpretare le correlazioni casuali, è necessario un adattamento specifico per
il gruppo studiato;
L’esperimento naturale: vantaggi = i cambiamenti nel gruppo
non sono programmati ma avvengono naturalmente nel corso degli eventi;
svantaggi = difficoltà nel gestire le variabili, quindi c’è un minore controllo
e possono essere studiate solo le dinamiche che avvengono casualmente;
L’esperimento sul campo: vantaggi = maggiore controllo sulle
variabili studiate e possibilità di introdurre altre variabili per verificare
le reazioni del gruppo; svantaggi = sono necessari accordi e cooperazione di
tutti i membri del gruppo;
Gruppi naturali in laboratorio: vantaggi = maggiore
controllo dell’ambiente, permette di investigare su variabili non facilmente
create in laboratorio con gruppi artificiali; svantaggi = problemi
d’interpretazione delle correlazioni;
Gruppi artificiali in laboratorio: vantaggi = massima manipolazione
delle variabili, possibilità di studiare gli effetti sui gruppi rispetto a
situazioni definite e non presenti nella società reale; svantaggi = non è
possibile generalizzare i risultati, è adatto solo a gruppi di giovane
formazione.
GRUPPO DI LAVORO, LAVORO DI GRUPPO
Il gruppo è un insieme di individui che si trovano in
diretto ed immediato rapporto, esercitano reciproche azioni d’influenza,
sperimentano un senso di appartenenza che li fa sentire parte del gruppo
stesso, sulla spinta sia di un sentimento di auto inclusione, sia
dell’attribuzione e del riconoscimento esterno.
In pratica, il gruppo è una pluralità d’interazione, invece
il gruppo di lavoro è una pluralità in integrazione.
Il prodotto dell’azione del gruppo di lavoro, è il lavoro di
gruppo, risultato di processi di coesione, interazione ed integrazione.
All’inizio, il legame più semplice con il gruppo, è
l’interazione, cioè il singolo membro costruisce relazioni interpersonali per
soddisfare i propri bisogni (membership); per giungere al livello successivo, è
necessario che si realizzi l’integrazione, cioè i bisogni individuali si
armonizzano con quelli del gruppo (groupship).
Quindi, il gruppo di lavoro nasce quando si passa dalla
membership al groupship.
La membership e il groupship comunicano tra di loro tramite
l’interdipendenza.
Un gruppo integrato è un gruppo che al suo interno ha la
capacità di mediare le differenze individuali, ponendo i bisogni del gruppo
come tramite per la realizzazione dell’individualità.
Il percorso che porta alla trasformazione di un gruppo in
gruppo di lavoro, è un processo di costruzione di un soggetto sociale autonomo,
il cui prodotto deve portare a qualcosa di migliore rispetto al lavoro
individuale.
I momenti essenziali per la costruzione di un gruppo di
lavoro, sono:
Definizione dell’obiettivo;
Assunzione di un metodo (o regola di lavoro);
Chiarimento dei ruoli gruppali;
Assunzione della leadership;
Analisi dei processi comunicativi;
Considerazione della variabile clima (il clima è l’insieme
delle esperienze che le varie circostanze organizzative producono sui soggetti,
quindi è l’ambiente organizzativo);
Valutazione del processo di sviluppo (integrazione tra le
parti).
GRUPPO E FORMAZIONE
In questo contesto, assume sempre più importanza la
formazione, che non costituisce più un momento che precede l’immissione ai
ruoli lavorativi, ma è uno strumento di valorizzazione delle risorse umane che
riguardano la creatività, capacità di decisione e di risoluzione di problemi
nuovi e complessi, e soprattutto disponibilità al cambiamento.
Si afferma così, una formazione di tipo psicosociale (cioè
il soggetto ha le competenze necessarie per relazionarsi a situazioni
complesse), che si basa sulla possibilità di poter riconoscere e analizzare la
realtà individuale, di gruppo, organizzativa e sociale.
Per realizzare questo tipo di formazione, è necessaria
l’acquisizione di competenze relative al sé, al proprio ruolo, alle modalità di
relazionarsi in situazioni complesse, soprattutto quando un conflitto
psicologico può tradursi in insicurezza che provoca ansia e meccanismi di
difesa pericolosi per il benessere individuale ed organizzativo.
Secondo questa prospettiva, la formazione deve realizzare 3
obiettivi:
Il sapere: migliora quantitativamente le conoscenze e i
concetti;
Il saper fare: inteso come accrescimento delle capacità
tecniche relative allo svolgimento di un particolare compito, funzione,
relative alle modalità di affrontare e risolvere i problemi legati al proprio
ruolo;
Il saper essere: riguarda la sfera degli atteggiamenti ed è
finalizzato ad un miglioramento ed un approfondimento delle modalità di
relazionarsi con il proprio sé, con il proprio gruppo e con le varie
organizzazioni sociali.
La formazione psicosociale consente di riflettere sulle
dinamiche psicologiche e sociali e quindi diviene un luogo di libera
espressione della soggettività degli individui del gruppo.
TECNICHE DI GRUPPO
Abbiamo una varietà di gruppi di formazione, cioè gruppi
finalizzati al miglioramento dei processi relazionali, della consapevolezza di
sé, del proprio agire.
Possiamo distinguere i vari gruppi in base alla loro
struttura, per cui abbiamo:
T – Group (gruppo non strutturato): viene definito anche
gruppo diagnostico, di base o di evoluzione. Il T – Group (Thinking group), è
un metodo di formazione rivolto ad un piccolo gruppo; il suo obiettivo è quello
d’introdurre un cambiamento nei soggetti che vi partecipano. Questo cambiamento
deve essere rivolto all’acquisizione del proprio sé, dei rapporti
interpersonali, e alla capacità di relazionarsi e di gestire un gruppo. In
questo modo, assume importanza il Trainer, ovvero colui che rispetto al gruppo,
ha il ruolo marginale di facilitare l’evoluzione dei partecipanti, ponendo, ad
es. in risalto, comportamenti altrimenti trascurati, oppure comunicando le
proprie osservazioni per stimolare il confronto. Il metodo distrutturato, si è
poi evoluto in gruppo diagnostico, assumendo connotazioni terapeutiche e
analitiche.
Gruppo semi – strutturato ( o gruppo di sensibilizzazione):
all’interno del gruppo, si cerca di simulare la realtà della vita
professionale. Queste esercitazioni servono a trasferire e rappresentare gli
atteggiamenti abituali e concreti, lungo un percorso accompagnato dalla
disponibilità interpretativa del trainer.
Gruppo strutturato (gruppo di addestramento): in questo
gruppo, il piano di lavoro viene dettagliatamente strutturato, ossia abbiamo
una situazione determinata in cui sono organizzati sia i comportamenti e gli
atteggiamenti dei partecipanti, sia l’apprendimento e la risoluzione di
determinati problemi. In questo contesto il trainer (o conduttore), assume un
ruolo più attivo ma comunque il suo intervento deve essere finalizzato a
stimolare la creatività dei soggetti coinvolti.
Case – metod: ha come obiettivo quello di affinare la
capacità di analisi dei problemi concreti attraverso il confronto di un gruppo
con un caso, cioè un particolare momento di vita dell’organizzazione.
Dal punto di vista psicologico, la leadership è innanzitutto
un fenomeno umano che si esplica nel gruppo.
Il termine manager, spesso viene confuso o associato a
quello di leader; nel campo aziendale, i 2 termini possono essere riferiti allo
stesso soggetto, anche se non sempre il manager è anche leader, così come
esistono leader che non svolgono ruoli manageriali.
Definiamo, quindi, il manager, come colui che si occupa di
problemi organizzativi e di gestione di persone e di risorse con competenza
tecnica, mentre il leader è propriamente colui che conduce il gruppo al
raggiungimento dell’obiettivo prefissato.
LA TEORIA DEI TRATTI ( primi del 900 fino al 1940-50)
Il primo interesse degli psicologi verso la leadership, fu
orientato alla ricerca delle caratteristiche che contribuivano ad identificare
il leader . Gli studi risalenti alla fine del secolo scorso, si rifanno alla
great mantheory, che si basava sul presupposto innatista secondo cui il
carattere individuale, è una variabile stabile, acquisito alla nascita e non
mutabile nel tempo. Di conseguenza, anche la leadership era una caratteristica
innata nell’individuo, per cui il riconoscimento del leader poteva avvenire
senza riferimento al gruppo di appartenenza.
Fin dai primi anni del secolo, Terman rilevò le
caratteristiche di base del leader, delineandone il profilo corrispondente ad
un individuo di sesso maschile, di aspetto gradevole, attivo, rapido o abile
nei rapporti sociali.
E’ da considerarsi che nell’epoca storica in cui tali studi
vanno a svolgersi, le industrie erano organizzate secondo la concezione
Tayloristica, basata su una netta separazione tra leader e gregari.
In questo contesto, quindi, la leadership viene considerata
una caratteristica individuale associata al dominio e al potere, piuttosto che
all’influenza che essa esplica nel gruppo.
CRITICHE: Il
principale limite di questa teoria, è quello di aver astratto il leader dal
gruppo di riferimento e dal contesto.
Nonostante le critiche, “la teoria dei tratti” fu ripresa
negli anni successivi e sviluppata soprattutto da Yulk (1981) il quale ha fatto
una distinzione tra tratti, valori e abilità.
Tratti: per tratti, s’intendono attributi individuali che
portano ad un comportamento relativamente stabile;
Valori: rappresentano opinioni interiorizzate che riguardano
la sfera del giusto – sbagliato, etico – non etico, morale – immorale. Essi
sono importanti perché influenzano le preferenze individuali, la percezione dei
problemi e le scelte di comportamento;
Abilità: s’intendono particolari capacità e competenze nel
fare qualcosa in modo efficiente: queste vengono classificate da Yulk in 3
livelli:
Abilità tecniche (conoscenze di metodi, processi e
tecniche);
Abilità interpersonali (capacità di comprendere i
sentimenti, le motivazioni e le opinioni);
Abilità cognitive (capacità di formulare i concetti,
creatività nella risoluzione dei problemi e abilità nel riconoscere le
opportunità e i potenziali problemi).
I tratti più importanti individuati da Yulk, sono:
Livello di energia e tolleranza allo stress: è
particolarmente importante per i manager di alto livello che si trovano ad
affrontare problemi diversificati i quali richiedono la capacità di mantenere
la necessaria attenzione e calma, anche in situazioni d’incertezza e scarsa
informazione.
Sicurezza di sé: necessaria per influenzare il comportamento
altrui e dirigere l’azione verso il compimento del risultato. (è necessaria,
però, una sicurezza moderata).
Locus of control interno: questa espressione fa riferimento
alla possibilità d’intervenire negli eventi delle propria vita pur non
considerando gli elementi che sfuggono al controllo. Questo permette di
pianificare, ed è fonte di flessibilità, adattamento ed innovazione.
Maturità emozionale: consente l’equilibrio necessario per
sviluppare maggiore controllo e stabilità.
Socialized power orientation: il potere è orientato al conseguimento
di benefici comuni e questo giustifica il desiderio di guidare e influenzare il
comportamento altrui.
Integrità: è un comportamento coerente con i valori
condivisi, espresso da una persona che si dimostra onesta, etica e degna di
fiducia.
Orientamento al risultato: riguarda il desiderio di
eccellere l’orientamento al successo e propensione nell’accettare
responsabilità.
STILI DI LEADERSHIP fotocopie pag 11
LA TEORIA DELLA CONTINGENZA fotocopie pag 12
LA UOVA LEADERSHIP fotocopie pag 14
10.IL NEGOZIATO NELLE ORGANIZZAZIONI
DAL CONFLITTO AL NEGOZIATO
La negoziazione può essere definita come una discussione tra
due o più parti mirate a comporre interessi divergenti, capaci di generare
conflitto. I negoziati sono di solito interessati al raggiungimento di un
accordo,in alcuni casi la negoziazione viene utilizzata come tattica dilatoria
per guadagnare tempo mentre sviluppano le strategie per battere la controparte.
Una teoria della negoziazione è dunque essenziale allo scopo
di capire situazioni disparate che spaziano dal processo decisionale familiare
e di coppia,fino alle relazione internazionali passando per i rapporti
industriali,la coordinazione tra organizzazioni differenti e il processo
decisionale intra gruppo e inter gruppo. Anche se la cultura negoziale sembra
essere poco diffusa,prevale un punto di vista convergente sugli aspetti
rilevanti di questo fenomeno,sia che si tratti di negoziato mono issue(mono
questione) che muli issue(multi questione i principi della negoziazione a cui
fare riferimento sono gli stessi per tutti. Rubin sosteneva che esistono un
insieme di dinamiche comuni che sottostanno a qualsiasi forma di conflitto e di
risoluzione dello stesso,ma è necessario sottolineae le distinzioni tra
contesti differenti. La negoziazione e la mediazione sono le due vie migliori
per risolvere la maggior parte dei conflitti,poiché sono percorsi per giungere
ad accordi.
ALLE ORIGINI DEL
CONFLITTO
La nascita di una situazione conflittuale dipende da tre
fattori:
divergenza di interessi, Rubin e Brown affermano che il
conflitto si verifica ogni qualvolta si scontrano punti di vista incompatibili;
il rancore,fa riferimento a eventi già accaduti in cui
almeno una delle due parti ha subito una riduzione ingiusta dei propri
interessi;
la percezione che le risorse sono scarte, Ruminati e Pietroni osservano che la scarsità prima di
essere un dato oggettivo è spesso frutto di una percezione e rappresentazione
soggettiva propria delle parti in gioco.
Il conflitto verrà percepito in modo diverso a seconda delle
diverse personalità coinvolte, dell’orientamento emotivo-relazionale verso la
controparte,del contesto,della struttura degli interessi in gioco,delle
esperienze conflittuali precedenti,della percezione degli interessi altrui,
della volontà o meno di conservare la relazione con la controparte in
prospettiva futura.
Secondo Greenhalgh influenzano il modo di percepire il
conflitto anche altri fattori come:le questioni di principio; la valutazione
delle possibili perdite; la percezione di una relazione di interdipendenza a
somma zero tra le due parti in gioco;il futuro della relazione con la
controparte; il livello di coesione interno della controparte;la presenza di
una terza parte l’escalation del conflitto.
Ury e Smoke evidenziano quattro fattori che rivestono
particolare importanza in una crisi e più in generale nel fenomeno
conflittuale:
la posta in gioco è molto alta,una crisi si distingue dal
normale flusso del processo decisionale per l’aspettativa di grosse perdite e
dunque per l’alta posta in gioco.
disponibilità temporale ridotta,è il caso in cui si ha a
disposizione poco tempo per prendere decisioni cruciali e c è urgenza di agire.
forte incertezza,i decision maker spesso riferiscono delle
sensazioni nel dover affrontare una situazione di crisi e tra queste la più
citata risulta essere la grande incertezza derivata dalla mancanza di
informazioni importanti.
scarsa disponibilità di opzioni,una crisi può non sembrare
grave finchè chi deve decidere sul suo esito sente di avere ancora delle
opzioni disponibili,se la crisi è in una fase crescente normalmente le opzioni
vengono percepite come scarse.
LA COMPOSIZIONE DEL CONFLITTO
Affinché il conflitto possa essere occasione di
miglioramento e non implosione nel pathos è necessario che venga risolto o composto.
La risoluzione del conflitto implica un cambio di mentalità che pone
efficacemente fine al conflitto in questione,al contrario,la composizione del
conflitto delinea un esito in cui il conflitto aperto si è concluso,sia che le
motivazioni sottostanti siano state esaminate oppure n. mentre la composizione
del conflitto prevede un cambiamento comportamentale,la risoluzione del
conflitto prevede un cambiamento di atteggiamento.
LE RELAZIONI INTERPERSONALI PRE-NEGOZIATO
Da tempo è nota l’importanza dei risvolti relazionali nelle
negoziazioni sia che le relazioni fra le parti siano temporanee ,sia se siano
durevoli. Raramente accade che si possa negoziare senza che si verifichino
conseguenze future, quanto meno in termini di reputazione ed immagine.
C è la necessità di due elementi per giungere ad un accorso
cioè la volontà e la maturità. La relazione negoziale non può fondarsi sulla
coercizione poiché la scelta d’intraprende un negoziato dipende da un iniziale
volontà delle parti. La negoziazione può avere luogo quindi non solo quando
entrambe le parti riconoscono la necessità di compiere uno sforzo per giungere
a un accordo,superando la speranza che il solo trascorrere del tempo volga gli
eventi a proprio favore, la fase che Rubin chiama maturità può essere l’esito
di un processo spontaneo ,oppure di una tattica intenzionalmente scelta.
È possibile creare premesse alla fase matura del conflitto
in due modi:
il primo prevede l’uso di minacce e coercizioni in modo che
le parti siano portate a riflettere sulle conseguenze di mancato accordo;
il secondo prevede la presentazione alle parti di nuove
opportunità di guadagno che deriverebbero dalle trattative.
LE STRATEGIE NEGOZIALI
Secondo Pruitt e Carnevale è possibile elencare sei
strategie che possono essere poste in atto in una negoziazione:
cotending(contesa); problem solvine (soluzione del problema);
yielding(concessione); inaction(inazione); compromising(compromesso);
withdrawing (rito della negoziazione).
Il contending è la strategia volta a persuadere la
controparte a effettuare concessioni,oppure a cercare di resistere a tentativi
dello stesso genere posti in atto dalla controparte. Al fine di rendere
efficace questa strategia si possono utilizzare numerose tattiche,tra cui
minacce e assunzioni di posizioni irremovibili.
Il problem solvine è una strategia orientata ad individuare
soluzioni nuove che soddisfino gli obiettivi di entrambe le parti. Le tattiche
di problem solvine sono: trovare un modo per aumentare le risorse oggetto della
disputa; tagliare i costi ovvero rendere le concessioni della controparte meno
costose; il mutuo scambio; reciproche concessioni su questioni di secondaria
importanza; trovare una nuova opzione che soddisfi le due parti in gioco.
Lo yielding prevede la rinuncia ai propri obiettivi o alle
proprie richieste a favore della controparte.
L’inaction è la strategia che preveder il non agire o agire
il meno possibile.
Il compromising è il mero accordo intermedio tra le
richieste delle parti.
Il withdrawal è una soluzione estrema in cui si abbandona il
negoziato.
La scarsa conoscenza dei processi negoziali può indurre
l’idea che una di queste strategie sia migliore dell’ altra.
LA NEGOZIAZIONE INTEGRATIVA E DISTRIBUTIVA
Negoziazione integrativa e distributiva sono due importanti
costrutti concettuali della letteratura sul negoziato. Walton e McKersie furono
i primi a distinguere la negoziazione distributiva dalla negoziazione
integrativa nel contesto dei negoziati del mondo del lavoro. Essi definiscono
la negoziazione distributiva come un costrutto ipotetico riferito al complesso
sistema di attività, strumentali al raggiungimento dell’obiettivo di una parte
quando queste sono in conflitto aperto con quelle della parte opposta. La
negoziazione integrativa,dall’ altra parte,si riferisce al sistema di attività
strumentali al raggiungimento degli obietti, le quali non sono in profonda
contraddizione con quelle della parte opposta e che perciò con queste possono
essere integrate.
ELEMENTI DI
NEGOZIAZIONE DISTRIBUTIVA
La negoziazione distributiva presuppone risorse e non
espandibili,l’unico obiettivo delle parti è la spartizione delle risorse. Il
negoziato distributivo è ritenuto il negoziato per eccellenza,nel senso che il
caso di vittoria i guadagni possono essere molto elevati e con elevati livelli
di soddisfazione derivati da aver battuto il nemico. Pruitt e Carnevale
suggeriscono quattro modalità principali per ottenere risorse dalla controparte
senza dover concedere nulla.
Minacciare: fare una minaccia significa prospettare una
punizione per la controparte nel caso non risponda alle proprie richieste;
Pressare: consiste nell’infastidire la controparte in modo
più o meno intenso ma continuo,con la promessa implicita o esplicita che la
seccatura terminerà se essa cede alle richieste;
Dichiarare una posizione irremovibile: consiste nel
dichiararsi determinati a considerare bloccata una posizione negoziale e a non
essere disponibile a fare concessioni;
Impiegare argomentazioni persuasive: mira a manipolare le
percezioni,gli atteggiamenti e le emozioni della controparte circa le questioni
oggetto della trattativa.
GLI OSTACOLI DEL NEGOZIATO
Ci sono una serie di ostacoli :
OSTACOLI ISTITUZIONALI: tutti i fattori organizzativi e
strutturali che impediscono la risoluzione del conflitto possono essere
considerati barriere di carattere istituzionale. La comunicazione è un
presupposto del buon funzionamento della relazione negoziale. Lo scambio di
informazioni può essere intralciato da estinzioni di ordine burocratico o
giuridico o può essere determinato dal conflitto in atto tra le parti.
Una seconda barriera di carattere strutturale è
rappresentata dalle fasi intermedie del processo negoziale,frequentemente al
fine di raggiungere un accordo di lungo periodo,le parti devono fare un passo
indietro rispetto alle posizioni iniziali. La concessione ha come obiettivo il
futuro raggiungimento di un accordo soddisfacente ma può rivelarsi
pericolosa,la parte che per prima ha fatto concessioni è più vulnerabile e può
diventare oggetto di un comportamento aggressivo della controparte.
La terza barriera strutturale è correlata alla presenza di
diversi gruppo di interessi all’interno della relazione negoziale. Il
multiparty bargaining ha complessità maggiori rispetto al classico negoziato
bilaterale,un maggior numero di soggetti in gioco con diversi interessi causa
problemi di gestione della situazione conflittuale che possono rimanere
irrisolti.
GLI OSTACOLI
STRATEGICI
La presenza di barriere strategiche è determinata dalle
scelte tattiche dei negoziatori,scelte volte al raggiungimento di un risultato
soddisfacente.
Un ulteriore problema nasce dalla rivelazione degli
interessi alla controparte , poiché una tattica
Improntata sulla segretezza e al sotterfugio può ostacolare
la negoziazione.
GLI OSTACOLI PSICOLOGICI
Le principali barriere psicologiche che si possono
incontrare durante una negoziazione sono:
l’effetto frame (rappresentazione mentale della trattativa)
; l’avversione alle perdite; i vincoli di decisioni passate; l’eccesso di
fiducia; interpretazione divergente; la disponibilità delle informazioni.
12. LO STESS
LAVORATIVO
A partire da Elton Mayo, nella prima metà del 900,
l’attenzione viene rivolta all’uomo applicato al lavoro e si prende in
considerazione la monotonia industriale presente nei lavoratori costretti a
compiere lavori ripetitivi.
Si è giunti alla constatazione che la componente psicologica
può incidere sul fatto che un compito non faticoso possa generale bassi livelli
di efficienza.
Cosi, dagli anni ’40 in poi si comincia a parlare di fatica
soggettiva:cioè di quello stato in cui il lavoratore dimostra una caduta di
efficienza dovuta ad un disagio lavorativo.
Viene fatta una distinzione tra una fatica più propriamente
fisiologica che si può alleviare e estinguere con eventuali pause programmate,
e uno stato di sofferenza dovuta ad un affaticamento , cioè una fatica cronica
che non può essere alleviata con gli antidoti previsti per il recupero
fisiologico.
Quindi affianco al tradizionale termine di fatica si
aggiunge un altro termine per definire la fatica non fisica e cioè quello di
carico mentale, per passare poi al termine stress lavorativo .
Ciò che caratterizza l’aspetto psicologico dello stress
lavorativo non è il riferimento ad una attività (una mansione o un compito) ma
è la percezione dell’individuo, del suo contesto lavorativo, dei rapporti
sociali vissuti all’interno dell’organizzazione.
Gli indicatori dello stress sono sia aspetti fisiologici
(attività respiratoria, cardiaca, oculare,nervosa) ma soprattutto quelli
riferiti alla condizione lavorativa in termini sia “oggettivi” (tecnologie,
ambiente, rapporto umano-macchina) sia “soggettivi” ( clima, soddisfazione,
alimentazione).
LA SINDROME GENERALE
DI ADATTAMENTO
Il termine stress è stato utilizzato per la prima volta dal
biologo Hans Seyle che studiò questa
problematica dal punto di vista clinico – medico. Egli iniettò a delle cavie di
laboratorio sostanze nocive e la sindrome che si verificò presentava 3 fasi:
Fase di allarme: che si manifestava attraverso alterazioni
fisiche – biologiche.
Fase di resistenza: che insorgeva dopo un’esposizione
continua ad agenti nocivi; una fase che non poteva durare in eterno perché
l’organismo era incapace di “adattarsi” per sempre.
L’esaurimento: l’ultimo stadio della sindrome
caratterizzato da squilibri che potevano
condurre alla morte.
Seyle , quindi, notò che gli stimoli stressori rappresentati
dalle sostanze nocive, turbavano l’equilibrio dell’organismo inducendolo a
reagire per fronteggiare la minaccia.
Il contributo di Seyle segna l’inizio di una lunga serie di
indagini relative ai fenomeni stressori.
Infatti secondo
Appley e Tumbull , 3 sono le
dimensioni fondamentali dello stress: quella biologica, psicologica e sociale.
Lo stress insorge nel momento in cui il nostro organismo
viene sollecitato da stimoli esterni e non riesce ad affrontarli
efficientemente; è provocato da un senso di inadeguatezza , di disagio, da uno
stato d’ansia perenne e questo coinvolge soprattutto la nostra psiche.
Stressor è il termine tecnico per indicare gli accadimenti,
le cause, gli agenti nocivi in grado di indurre la “sindrome generale di
adattamento”.
Una serie di stressor improvvisi e inaspettati può impegnare
in maniera eccessiva e far collassare le capacità adattative di un individuo.
Lazarus è tra i primi a mettere in evidenza l’importanza
della condizione psicologica e cognitiva del fenomeno stress.
Secondo tale autore, lo stress psichico è dato da un
particolare rapporto tra la persona e l’ambiente, un rapporto che la persona
avverte come gravoso o superiore alle proprie risorse.
In particolare per Lazarus , gli elementi che producono
stress nelle persone sono:
Il conflitto: viene percepito quando si verificano
simultaneamente due o più azioni, o traguardi, che sono incompatibili e questo
genera frustrazione.
La frustrazione: si ha perché per raggiungere un traguardo,
inevitabilmente se ne escluderà un altro.
Poi successivamente Kobasa , individua una configurazione di
personalità che definisce vigoria psicologica , ovvero un tipo di personalità
che aiuta l’individuo a reagire positivamente allo stress.
La vigoria è caratterizzata da 3 fattori fondamentali :
- Impegno: la capacità di credere in se stessi e nelle
proprie possibilità;
- Controllo: la capacità di ognuno di assumersi la piena
responsabilità degli eventi della propria vita, piuttosto che attribuirli a
forze esterne come il destino o il caso.
- Sfida: la tendenza al cambiamento piuttosto che alla
stabilità, vedendo nell’evento
stressante un ulteriore possibilità di sviluppo personale, piuttosto che una
minaccia alla tranquillità.
Secondo Kobasa coloro che mostrano di avere un alto livello
di vigoria psicologica, dovrebbero rispondere allo stress in modo più positivo
rispetto a coloro che hanno un basso livello di vigoria.
EUSTESS E DISTRESS
In linea generale vengono individuate 2 tipologie di stress
:
-Eustress: che si riferisce ad uno stress positivo;
-Distress: che si riferisce ad uno stress negativo;
Si parla di stress positivo (eustress) quando l’uomo che
vive in armonia con la sua mente e il suo corpo, viene sollecitato da stimoli
esterni che sono proporzionali alla sua capacità di risposta.
L’eustress, quindi, è la risultante di quell’energia che
viene utilizzata al fine di raggiungere degli obiettivi che l’individuo si
pone.
Si tratta di quella dose di stress che si esaurisce nel
momento in cui l’individuo raggiunge un obiettivo.
Si parla invece di stress negativo (distress) quando le
condizioni di stress permangono anche in assenza di eventi stressanti, oppure
quando l’organismo reagisce a stimoli di lieve entità in maniera
sproporzionata. Tutto ciò fa riferimento ad uno stato di stress cronico.
IL COPING
Il termine coping fa riferimento a dei meccanismi di difesa
che consentono all’individuo di gestire situazioni percepite come pericolose.
Secondo Lazarus il
coping è un processo che dipende dal contesto ed è indipendente dal risultato,
nel senso che si tratta di un insieme di tentativi per controllare eventi
esterni ritenuti difficili o superiori alle nostre risorse.
Alla base si questo processo c’è una valutazione soggettiva
di un determinato evento.
Lazarus distingue 2 tipi di valutazione:
-Valutazione primaria: questo tipo di valutazione consente
di identificare una situazione problematica che è solitamente accompagnata dal
senso di disagio;
-Valutazione secondaria: si considerano le risorse
disponibili per gestire il danno reale o potenziale; riguarda un dettagliata
formulazione di eventuali strategie di coping (cosa bisogna fare?).
Esistono 2 funzioni di Coping fondamentali secondo Lazarus:
La prima è focalizzata sul problema: cioè è finalizzata a
ridurre l’impatto negativo di un problema, attuando strategie volte al
cambiamento esterno, quindi alla modificazione della situazione;
È focalizzata sull’emozione: tende a modificare l’esperienza
soggettiva e i sentimenti negativi derivanti dalla situazione;
Inoltre vi sono le risorse che l’individuo ha a sua
disposizione per gestire le situazioni, ovvero le “fonti di resistenza”:
risorse materiali (denaro, beni e servizi) , risorse psicologiche e le risorse
legate alla personalità dell’individuo.
Per affrontare lo stress lavorativo è possibile considerare
alcune misure preventive e correttive che Caprara e Borgini suggeriscono dal
punto di vista organizzativo:
- Selezioni di personale più accurate;
- Programmi di orientamento e aggiornamento che creino
occasioni per momenti di socializzazione;
- Pianificazione dello sviluppo di carriera;
- Incontri, mete e prospettive periodicamente discusse con
l’organizzazione, etc;
Lo stress lavorativo può essere positivo, che è quello che
ci da la possibilità di impegnarci maggiormente, e negativo, quello che crea
una flessione nelle nostre abilità lavorative e nella percezione che abbiamo di
noi stessi.
13. IL BORNOUT
Freude Nberger introdusse per primo, nel 1974, il concetto
di bornout per indicare “ lo stato di esaurimento, determinato dall’aver a che
fare con altri in situazioni impegnative sotto il profilo emotivo”.
Christina Maslach, invece, è stata una tra i primi psicologi
che si sono occupati in modo sistemico e approfondito dei vari aspetti della
sindrome di burnout.
Maslach, attraverso questionari, interviste e osservazioni è
riuscita a dimostrare come qualsiasi tipo di attività (e non solo le
professioni sanitarie, come si diceva prima) a carattere sociale può essere
oggetto d’interesse per chi studia tale sindrome.
Ella ha individuato 3 fasi nel processo di bornout:
Esaurimento emotivo;
Spersonalizzazione;
Ridotta realizzazione personale;
I vari ricercatori che si sono occupati di questa problematica
hanno introdotto numerose definizioni della sindrome di bornout, ma quella più
interessante è quella di “cortocircuito” ossia il bornout è simile ad un
sovraccarico di energie e di richieste che inducono l’operatore ad accumulare
una serie di situazioni negative incontrollabili.
Il “cortocircuito” è una conseguenza dell’interazione di
molti fattori, quindi il bornout non fa riferimento ad un evento isolato bensi ad un processo.
Molti studiosi, infatti, concordano nel considerare il
bornout come un processo che si suddivide in fasi.
Chernisse (1980) individuò l’inizio di questo processo di
logoramento nel momento in cui l’operatore percepisce una sensazione di
esaurimento che non può essere alleviata.
La risposta a questa tensione emotiva, consiste in un cambiamento
nell’atteggiamento dell’operatore verso l’utente, ossia l’operatore si distacca
dall’utente per difendersi da altre fonti di stress.
I SINTOMI
La sintomatologia della sindrome del bornout è varia e
dimostra la molteplicità di questa problematica, dove ai disagi di tipo fisico
si affiancano disturbi di tipo psicologico.
I sintomi della sindrome di bornout sono:
- Alta resistenza ad andare a lavoro ogni giorno;
- Sensazione di fallimento;
- Rabbia e risentimento;
- Scoraggiamento e indifferenza;
- Negativismo;
- Isolamento e ritiro;
- Senso di stanchezza e esaurimento tutto il giorno;
- Guardare frequentemente l’orologio;
- Incapacità di concentrarsi o di ascoltare ciò che l’utente
sta dicendo;
- Perdita di sentimenti positivi verso gli utenti;
LE CAUSE
All’origine del bornout possiamo individuare 3 elementi:
Struttura organizzativa:influisce sulla motivazione e di
conseguenza sulla prestazione degli operatori; la struttura organizzativa si
suddivide in 3 componenti:
Struttura di ruolo: è rappresentata dall’eccessivo carico di
lavoro o dall’eccesiva responsabilità attribuita dall’operatore.
Struttura di potere:gestire all’interno dell’organizzazione
gli incarichi, le responsabilità. Quando l’operatore percepisce la sua
incapacità decisionale sulla situazione lavorativa manifesterà stati di
tensione emotiva e di alienazione.
Struttura normativa:cioè gli obiettivi, le ideologie, le
norme. A volte l’impostazione di regole per la gestione delle situazioni può
creare un senso di mancata partecipazione. Sentirsi partecipi alle attività
dell’organizzazione è uno dei modi migliori per essere più efficienti e
produttivi.
Fattori individuali,possono essere suddivisi in:
Tratti della personalità che condizionano la risposta del
soggetto alla situazione stressante e sono:
Ansia nevrotica: la persona reagisce manifestando una
eccessiva motivazione, un forte desiderio di successo, oppure al contrario
diventa instabile ed emotivo.
Sindrome di tipo “A”: si manifesta con eccessiva energia
diretta alla competizione, oppressività, impazienza. Gli individui che
presentano tale sindrome sembrano essere occupati in una incessante lotta
contro se stessi.
Luogo di controllo: l’individuo percepisce di non aver
nessun controllo della situazione, anzi attribuisce esclusivamente a se stesso
le cause di un insuccesso.
Flessibilità: nelle professioni d’aiuto molto spesso
l’adattabilità dell’operatore può generare tensione, perché si creano
situazioni conflittuali di ruolo dovute all’incapacità di dire No a determinate
richieste.
L’introversione: impedisce la risoluzione di conflitti,
mentre le persone estroverse le affrontano più facilmente.
Le mete di carriera: ossia gli obiettivi che gli operatori
si prefiggono e che sono uno stimolo necessario che permette loro di lavorare
in modo più efficace.
L’esperienza precedente: gli operatori che hanno già
affrontato una situazione stressante sapranno gestire un nuovo disagio, reagire
e far scattare i meccanismi di difesa.
Aspetti culturali: questo fattore è stato individuato da
Cherniss e riguarda il contesto culturale e il clima socio – politico che sono
rilevanti per lo sviluppo del bornout. L’appartenenza ad una comunità (in
questo caso ad un’organizzazione) crea vincoli affettivi che aiutano gli
individui a non sentirsi isolati; però non è scontato
che le persone con cui si lavora sono disposte a
collaborare, non sempre tra i colleghi esiste un rapporto di reciproco aiuto e
di collaborazione.
Attualmente, nei programmi territoriali sono state adottate
delle strategie per gestire il Bornout che hanno cercato soprattutto di creare
delle “situazioni preventive” in base alle conseguenze dello stress lavorativo.
STRUMENTI DI RILEVAZIONE: IL MASLACH BORNOUT INVENTORY
Questo strumento di misurazione è stato costruito da
Christina Maslach e Susan Jackson (1986) con l’intento di dimostrare
l’esistenza della sindrome del bornout.
Le due ricercatrici ritenevano che il bornout fosse
caratterizzato da 3 aspetti fondamentali:
Esaurimento emotivo: dovuto alla mancanza di risorse che
genera l’incapacità di prestare un valido aiuto agli altri;
Depersonalizzazione: derivante da atteggiamenti di
indifferenza, di nervosismo collegata all’esaurimento emotivo;
Riduzione della realizzazione personale: dovuta alla
tendenza di valutare se stessi e il proprio operato negativamente;
La versione definitiva di questo questionario è composta da
22 ITEM (cioè affermazioni) riguardanti atteggiamenti e stati emotivi connessi
all’attività lavorativa e inizialmente ognuno richiedeva 2 tipi di risposta
riferita all’intensità e alla frequenza dei sentimenti.
Quindi i soggetti dovevano valutare le loro sensazioni
attraverso una scala di intensità che andava da un punteggio minimo di zero
(che corrispondeva ad un sentimento non avvertito) ad un massimo di 7 (che
corrisponde ad una massima intensità).
Successivamente Maslach e Jackson nella versione definitiva
hanno individuato 3 sottoscale per valutare in maniera specifica i 3 aspetti
del bornout, per cui abbiamo:
La sottoscala dell’esaurimento emotivo: che comprende 9
ITEM;
La sottoscala della depersonalizzazione: che comprende 5
ITEM;
La sottoscala della realizzazione personale: che comprende 8
ITEM;
Oggi si tende a realizzare un nuovo modello il cosiddetto
modello predittivo:ossia uno strumento che permetta di valutare la probabilità
che un soggetto ha di raggiungere le fasi critiche di bornout.
14. IL MOBBING
Il mobbing è un’insieme di comportamenti violenti che si
manifestano sul luogo di lavoro e ledono l’integrità psico – fisica della
persona fino a mettere in pericolo la continuità lavorativa e degradare il
clima aziendale.
Lo schema del Mobbing prevede sempre una triade di attori:
Vittima: soggetto sottoposto al mobbing;
Mobber: colui che svolge un ruolo attivo nel processo
persecutorio;
Spettatori: spalleggiano indirettamente il mobbing;
Walter classifica la vittima del mobbing: è una persona che
mostra dei sintomi di malattia, si ammala, si assenta dal lavoro, ha un ruolo
passivo all’interno del gruppo, si colpevolizza, etc.
Il mobber è l’aggressore e
Ege ritiene di poter individuare 2 tipologie:
Il mobber intenzionale: è colui che ha la piena
consapevolezza dell’azione persecutoria e dei danni che può provocare; egli
dispone di informazioni sufficienti per elaborare una strategia per distruggere
professionalmente la vittima.
Il mobber casuale: non ha consapevolezza in quanto il suo
comportamento deriva da un agire non pianificato ma da situazioni contingenti.
Per quanto riguarda gli spettatori, ossia i mobber indiretti
Ege riassume tale tipologia in:
I side – mobber: che aiutano concretamente il mobber con il
loro sostegno e la loro alleanza;
Gli indifferenti: che favoriscono il mobbing con il loro non
– intervento contro le azioni distruttive del mobber;
Gli oppositori: cercano di aiutare la vittima, non accettano
il clima di tensione e conflitto e quindi cercano una soluzione;
LE CAUSE
Le azioni mobbizzanti possono dipendere da cause soggetti,
che comprendono lo stress e i conflitti interpersonali, oppure da cause
oggettive che riguardano il contesto culturale nel quale le organizzazioni
operano (per esempio, i livelli di competitività sociale o di aggressività).
I tipi di mobbing possibili sono:
Mobbing verticale: il superiore vittimizza il subordinato;
il comportamento persecutorio viene attuato su un dipendente;
Mobbing orizzontale: l’azione di mobbing avviene tra pari,
cioè tra soggetti che appartengono allo stesso livello all’interno
dell’organizzazione; le motivazioni possono essere la competitività e i
pregiudizi;
Mobbing aziendale: l’azione del mobbing viene iniziata da un
capo nei confronti di un soggetto a lui sottoposto. A questa azione possono
partecipare altri soggetti del gruppo che spalleggiano il capo per compiacenza;
Mobbing strategico: è una forma di mobbing verticale che ha
come unico scopo l’eliminazione di individui dell’azienda;
Tutti gli autori concordano nel considerare il Mobbing un
processo che secondo Ley mann (1993) si articola in 4 fasi:
FASE: è definita conflitto quotidiano, cioè inizialmente si
presenta una conflittualità anche banale fatta di episodi, di contrasti che
possono essere riferiti al mobbing per l’intenzionalità di chi conduce
l’azione;
FASE: costituisce l’inizio del mobbing vero e proprio e
quindi del terrore psicologico, ossia il conflitto si stabilizza;
FASE: è quella degli errori e abusi dell’amministrazione del
personale, cioè quando la vittima manifesta un evidente stato di disagio. In genere si agisce in modo
da isolare il soggetto attribuendogli mansioni meno qualificanti che contribuiscono
ad aggravare il suo stato già critico;
FASE: è quella dell’ esclusione dal mondo del lavoro è la
fase definitiva dove la vittima decide di trasferirsi di chiedere le dimissioni
o il licenziamento;
Per quanto riguarda
gli strumenti di rilevazione il questionario ideato da Leymann è quello
più diffuso, il cosiddetto lipt; poi Ege lo ha adattato alla situazione
italiana dividendolo in 3 aree:
Area anagrafica;
Azioni mobbizzanti;
Rilevazione sintomatologica del mobbizzato;
In Italia risulta che i lavoratori mobbizzanti sono circa il
6% e il settore terziario è quello più colpito. Per quanto riguarda la fascia
d’età, la percentuale più elevata è tra i 35 e i 50 anni e vi è una maggiore
predisposizione delle donne rispetto agli uomini a denunciare e a richiedere
aiuto esterni.
Per quanto riguarda la prevenzione del fenomeno è necessario
che l’intera organizzazione sappia distinguere le situazioni conflittuali, tali
da essere indicatori di mobbing, dalle occasioni di contrasto presenti nella
routin lavorativa.
L’allontanamento del soggetto mobbizzato non è risolutivo ma
è più interessante l’introduzione sul luogo di lavoro di un esperto, il
cosiddetto counselor, il cui intervento deve essere diretto alla soluzione dei
conflitti inter – aziendali e inter – gruppali.
15. L’ERGONOMIA NELLE ORGANIZZAZIONI
L’ergonomia si è sviluppata nell’ambito delle guerre
mondiali, essa è un approccio disciplinare concepito da Murrell il quale
propose il termine ergonomics per definire il gruppo di lavoro che opera
secondo il motto: “adattare il lavoro al lavoratore”.
Il 1961 rappresenta il momento più significativo per
l’approccio ergonomico, infatti viene istituita a Stoccolma l’International
Economics Association (I.E.A.) che sancì di fatto il riconoscimento ufficiale
dell’ergonomia a livello internazionale.
In Italia nello stesso anno viene fondata la società
italiana di ergonomia.
L’ergonomia ha come oggetto l’attività umana in relazione
alle condizioni ambientali e organizzative in cui si svolge. Lo scopo è
l’adattamento di tali condizioni alle esigenze dell’uomo in rapporto alle sue
caratteristiche e attività.
Infatti, l’ergonomia vuole contribuire alla progettazione di
servizi, ambienti di vita e di lavoro che rispettino i limiti dell’uomo e ne
potenzino le capacità operative.
Quindi si pone al centro l’individuo con le sue attitudini,
capacità e limitazioni.
L’ERGONOMIA COGNITIVA
Si parla di ergonomia cognitiva in seguito all’avvento della
tecnologia e dell’informatizzazione, che sotto il profilo umano ha portato ad
un progressivo allontanamento del lavoratore dall’oggetto lavorato.
Ciò ha portato gli studiosi a concentrarsi sull’attività
cognitiva dell’uomo; nacque così l’ergonomia cognitiva che si propone di
realizzare l’interazione che si instaura tra sistema cognitivo umano e gli
strumenti per l’elaborazione delle informazioni (computer).
L’ergonomia ha trovato la sua più ampia applicazione nel
settore della sicurezza lavorativa: infatti si è occupata di interventi volti
alla rimozione dei fattori di rischio propri dell’ambiente e ha promosso lo
sviluppo di una cultura della sicurezza.
16. LA QUALITA TOTALE
La definizione classica di qualità totale è quella data da
Feigenbaum (1951): cioè, la qualità totale è intesa come sistema efficace per
integrare gli sforzi per lo sviluppo, il mantenimento e il miglioramento della
qualità dei vari gruppi in un’organizzazione, in modo da garantire la piena
soddisfazione del cliente al minimo costo.
Nel Total Quality Management abbiamo vari significati di
qualità quali:
Significato onnicomprensivo: per cui la parola “qualità”
diventa il riferimento e l’obiettivo per qualsiasi attività svolta in azienda,
comprese il marketing, progettazione, produzione, ispirazione e spedizione.
Significato allargato: cioè la qualità riguarda tutte le
dimensioni, la qualità delle prestazioni dell’azienda, dell’organizzazione,
dell’immagine dell’azienda sul mercato e nel mondo estreno, qualità del posto
di lavoro, dei rapporti tra le persone.
Significato operativo
è rappresentato da 2 aspetti fondamentali:
La soddisfazione del cliente: è l’obiettivo primario per
un’azienda che opera secondo i principi della qualità totale, infatti quello
che conta è il grado di soddisfazione del cliente, poiché è al cliente che
spetta la valutazione della qualità e quindi dell’adeguatezza del prodotto alle
proprie necessità.
La qualità intesa come output: deriva da un’ottica ben
precisa sostenuta da studiosi giapponesi i quali ritenevano che se la qualità è
priorità assoluta dell’azienda, allora deve essere trattata con priorità in
tutti i processi aziendali e in tutte le attività. In altri termini, la qualità
dei prodotti/servizi di un’azienda non è altro che il risultato ( o la somma)
della qualità dei singoli processi messi in atto per generarli. In questo modo
tutte le persone, dall’operaio al direttore, hanno la loro qualità “da curare”.
Qualità negativa: fa riferimento a qualsiasi scostamento tra
ciò che si attiene e ciò che si dovrebbe ottenere rispetto a quello che ci si
aspettava, i tempi di consegna non rispettati, difettosità del prodotto.
Lavorare in ottica di q.n. significa eliminare i problemi che derivano dalla
qualità negativa.
Qualità positiva: è l’inverso di quella negativa, ossia si
ha quando si riesce a soddisfare le esigenze espresse dal cliente, a soddisfare
le sue attese (questo è il vero successo del Total Quality Management). In
particolare la “qualità positiva” si ha quando al cliente viene dato qualcosa
che non si aspettava ma che soddisfa i suoi bisogni.
Per definizione il Sistema Qualità Totale è inteso come
sottosistema aziendale che raggruppa tutte le caratteristiche rilevanti ai fini
della “missione qualità” e quindi le caratteristiche dell’organizzazione a
livello strutturale, tecnico, manageriale, umano, sociale e del sistema dei
valori, che hanno un ruolo significativo per raggiungere l’eccellenza dei
risultati per il miglioramento continuo.
Total Quality Test: è un questionario nato dall’esigenza di
trovare uno strumento di valutazione standardizzato per valutare i livelli di
applicazione, fiducia, conoscenza della qualità all’interno
dell’organizzazione. La versione definitiva del questionario presenta 18 ITEM
volti a misurare, attraverso una scala Likert a 5 livelli (da fortemente in
disaccordo a molto d’accordo), 3 elementi fondamentali della Qualità Totale:lo
stile di leadership, la comunicazione, la motivazione dei dipendenti;
Questi elementi sono rappresentati dalla valutazione di 3
dimensioni:
Quality practice (QP): o livello di applicazione della
qualità totale;
Quality faith (QF) : o fiducia espressa nella strategia
della qualità;
Quality knowledge (QK): o conoscenza del concetto di
qualità;
15. NUOVE FORME DI LAVORO
A partire dagli anni 80 si sono affacciate al mercato nuove
forme di lavoro: il telelavoro e il lavoro interinale rappresentano le maggiori
innovazioni.
Il telelavoro: nasce dalla rivoluzione elettronica ed
informatica nel corso degli anni ’90. Esso è un modo di lavorare stando
distanti dall’ufficio o dall’azienda (per esempio a casa propria) attraverso
l’uso di sistemi informatici e telematici.
Il telelavoro permette alle persone di decidere modi e
luoghi del proprio lavoro (perché non ci sono restrizioni geografiche). Questa
modalità di lavoro rappresenta senz’altro una conquista in termini di
flessibilità ed esso, inoltre, è conveniente soprattutto per le aziende, in
quanto si ha una maggiore produttività e allo stesso tempo si riducono i costi
per gli uffici e le spese di gestione (visto che si lavora fuori); e
diminuiscono i costi fissi ovvero relativi al personale che viene sempre più
reso precario e a termine. Bisogna essere prudenti quando si parla di
telelavoro perché molto spesso può succedere che questo tipo di attività mette
a rischio i rapporti con i colleghi, in quanto ci si può sentire non più
componenti di una stessa squadra;
Il lavoro interinale: è molto più diffuso del telelavoro ed
è stato riconosciuto dall’ordinamento italiano con al legge 196 del 1997. Per
lavoro interinale si intende lavoro temporaneo che si è diffuso inizialmente
come strumento di flessibilità per favorire l’entrata nel mondo del lavoro.
In base alla normativa del ’97 il lavoratore viene assunto
dall’agenzia di lavoro interinale e messo a disposizione di un’impresa che ne
utilizza la prestazione lavorativa, cioè il lavoratore ha un contratto di
lavoro subordinato con l’agenzia e non con l’impresa dove effettivamente eroga
la sua prestazione.
Abbiamo quindi 3 soggetti:
AGENZIA DI LAVORO INTERINALE;
IMPRESA;
LAVORATORE TEMPORANEO;
Le motivazioni che spingono alla scelta dl lavoro interinale
sono sintetizzate da Bagdadli: egli individua 2 gruppi di lavoratori
temporanei:
“temporanei / temporanei”: cioè coloro che cercano nel
futuro un impiego permanente;
“temporanei / permanenti”:che non sono interessati alla
stabilità lavorativa.